sabato 11 dicembre 2010

Dell'intrecciarsi di gatti e destini - Parte terza

Parte seconda

Il giorno in cui volle scrivere di C., Isa si accorse di essere pietrificata.
Eppure doveva pur esserci il modo di parlare di lui, l'aggettivo che fermasse la sua bellezza prima della morte. Si disse che, qualora l'avesse trovato, si sarebbe sentita in pace, appagata dalle sue stesse parole.

In confronto a C., non si sentiva bella. Era troppo esile, con braccia e gambe troppo sottili. Quanto al suo viso, oscillava sempre tra il nervosismo e la preoccupazione, producendo un'arricciatura sgradevole fra le sopracciglia e una curva angosciata lungo le labbra.
A dirla tutta, Isa pensava che C. soffrisse di una forma acuta di presbiopia amorosa: la perfezione apparteneva a lui, sebbene sembrasse non rendersene conto. Era nel suo passo veloce e distratto (la testa abbassata, le mani in tasca, C. procedeva come se il mondo non fosse altro che un grigio accidente sotto lo splendore vergine del cielo); nella linea ambrata del suo fianco disteso sopra il letto nelle notti di luglio.
C. negava tutto, respingeva gli elogi di Isa. «Le mie mani sono così grandi» diceva «assomiglio a un gigante!»
In effetti una sola delle sue braccia poteva sollevarla senza fatica e, se le spalancava entrambe, diventava immenso quanto il ventre di una madre. Era impossibile scalfirlo, recargli dolore.
Allora, piccola come un seme, Isa si rifugiava dentro di lui, nell'abbraccio che sapeva di lana e d'inverno, in quell'amore semplice e lento che, grande quanto il fiume, procedeva attraverso le stagioni.

Adesso non sapeva perché non funzionasse più. Aveva creduto nell'eternità, nella tenerezza infinita di quel legame senza pretese - e ora si sentiva tradita. Dai sentimenti, dal tempo, dall'indifferenza del corpo di C., più che della sua mente.
Non riusciva a distaccarsi da lui e meno ancora dalla casa che insieme avevano sistemato, con i mobili in legno scuro, le tende vaporose e il profumo speziato dell'incenso che ne invadeva invisibile le stanze. Isa sospettava che dietro a quell'attaccamento tenace all'amore, al tempo e allo spazio vi fosse lo zampino dei gatti.
Di Clizia la veggente e di Cagliostro che intratteneva legami discreti con l'invisibile in primis; e poi di Emma che, bisognosa com'era di cure e carezze, cementò col suo arrivo quell'unione forte, seppure logorata.
«Che cosa devo fare?» domandava Isa nei pomeriggi di quel mese di dicembre mentre, davanti a un cappuccino caldo, discuteva con Cathy della dolorosa profondità di ogni sentimento amoroso.
Cathy sospirava, andando col pensiero al suo Uomo dell'Acqua; con i grandi occhi color pervinca fissava l'amica per qualche istante indecifrabile e infine le raccomandava di pazientare, di non compiere scelte affrettate. "Lasciati vivere" era la loro parola d'ordine.

Per questo, come si raccontava, Isa fu lieta di accettare il lavoro d'insegnante presso la scuola di A.: impegnare il tempo le avrebbe impedito di pensare, di fare telefonate complesse al Cappellaio Matto, di umiliarsi nel dispensare abbracci non contraccambiati e di porsi domande che implicavano risposte disperate.
Nel tentativo di scordarsi dell'amore, si chiuse nel mondo chiassoso e impregnato del dolce aroma di cannabis della piccola scuola di periferia; non poteva sapere che, proprio là, avrebbe fatto esperienza di una forma ancora più alta e perfetta d'abnegazione: l'amore per il figlio che (fino a quel momento ne era stata certa) non avrebbe mai avuto...

Continua...

Nessun commento:

Posta un commento