mercoledì 12 gennaio 2011

Prove d'abbandono

Isa sapeva di avere un pessimo carattere. Era generosa, certo; allegra e di compagnia; amava le chiacchiere, le risate e, di fronte agli imprevisti della vita, sapeva essere cautamente ottimista.
Il suo problema - il suo vizio capitale, per indulgere a una visione cristiana della vita - era l'ira; quel nervosismo fremente che non l'abbandonava mai e che, al momento meno opportuno, esplodeva in un getto ribollente di rabbia, grida, oggetti infranti e disperazione. Pareva a tutti gli effetti l'eruzione di un vulcano; ma Isa preferiva definirla "l'onda nera", poiché nulla la inquietava quanto l'elemento acquatico e il gorgoglìo cieco del mare di notte.
L'onda nera arrivava, sommergeva tutto, distruggeva quanto costruito nei mesi e nelle settimane precedenti e si rititava lasciando dietro di sé (e dentro Isa) un doloroso irrigidimento, unito a una detestabile freddezza. Nei giorni successivi alla crisi, Isa si chiudeva in casa, rifiutava l'appoggio di amici e parenti, il conforto dei libri. Soltanto Mickey e i gatti potevano avvicinarla - e lo facevano in silenzio.
Le radici di questa "instabilità emotiva"

(«Lo sai qual è la mia più grande paura, M.?»
M. taceva, aspettando che fosse lei a parlare.
«Di diventare pazza, di disperdermi definitivamente in non so quanti frammenti... E' stupido?»
«Nessuna paura è stupida, Isa.»)

le radici di questa instabilità - si diceva - affondavano (come ogni complesso che si rispetti) nell'infanzia della giovane donna: nei silenzi di sua madre, negli scoppi di collera del Professore.
Quando era andata in analisi, Isa aveva diligentemente annotato nel suo diario sogni e sensazioni: ne era uscito un affresco a tinte stonate, che le aveva sì dato una visione d'insieme dei suoi irrisolti, ma ben poche certezze riguardo alla possibilità di controllare l'onda nera e i suoi esiti nefasti.
In effetti, era stato proprio il proprio brutto carattere ad allontanare C., Isa ora ne era certa.
Ci rifletteva da molto tempo e il senso di colpa la pungolava, senza lasciarle un attimo di pace.
"Hai rovinato tutto" le diceva la vocina interiore. "Hai gettato i migliori anni della tua vita alle ortiche e tutto per cosa? Per puntiglio? Incapacità di trattenerti? Per forza che lui si è allontanato da te! Chi la vorrebbe, una donna simile?"
La voce era impietosa e Isa le dava retta più di quanto avrebbe dovuto.
Per alcuni mesi provò a confidarsi col Cappellaio Matto, attribuendogli uma capacità di comprensione che quel poveretto non aveva mai posseduto. In lui (collerico, egoista, crudele nelle parole e nei gesti) ricercava la pazienza di C., la sua naturale predisposizione all'ascolto e la bontà di un animo scevro di ogni ipocrisia. Ricerca destinata ovviamente ad avere esito negativo.
«C. è un brav'uomo» le diceva M. con la saggezza dei suoi ventitré anni. «Dimentica il suo allontanamento, prova a perdonarlo come lui ha sempre perdonato te.»
«Oh, mi sento una stronza!»
«A volte lo sei.»
Isa guardava M. col mento tremolante. «Ho detto "a volte"» si affrettava ad aggiungere lui.

Ma Isa - che per tutta l'adolescenza si era affannata a elargire affetto a chi non lo desiderava né lo meritava - faceva ora molta fatica ad avvicinarsi a quanti parevano respingerla.
Era più forte di lei: non ci riusciva. Considerava l'assenza la peggiore delle punizioni; o delle colpe, a seconda del punto di vista.
All'assente, io faccio continuamente il discorso della sua assenza; situazione che è tutto sommato strana; l'altro è assente come referente e presente come allocutore. Da tale singolare distorsione, nasce una sorta di presente insostenibile; mi trovo incastrato fra due tempi: il tempo della referenza e il tempo dell'allocuzione: tu te ne sei andato (della qual cosa soffro), tu sei qui (giacché mi rivolgo a te). [1]
C. si trovava "lì" non soltanto perché Isa parlava di lui e a lui nelle pagine del suo diario; ma anche perché non aveva mai abbandonato la Casa dei Ranocchi, nonostante le incomprensioni e i frequenti litigi dell'ultimo periodo.
Isa trovava bizzarra quella commistione di quieta familiarità e di sofferenza, di vicinanza e assenza in un'unica dimensione.
Riflettendoci bene, soltanto i gatti sapevano dosare con altrettanta (con maggiore!) sapienza amore e abbandono, innamoramento e lontananza.
Pensava a Cagliostro, che la amava follemente pur restandole a debita distanza fino a sera, momento in cui decideva di potersi concedere le più affettuose effusioni; ma anche a Clizia che, da quando era divenuta cieca, aveva fatto del distacco e del riavvicinamento un'arte sottile - un ricamo di contrari.
E questo le riportò alla mente - com'era facile prevedere - l'avventurosa storia di Clizia, gatta veggente...

[1] R. Barthes, Frammenti di un discorso amoroso, Einaudi, Torino 2001, p. 35.

lunedì 10 gennaio 2011

La complessa storia di Soufiane - Parte prima

Ciò che colpiva di più, nel volto regolare di Soufiane, erano gli occhi. Isa pensava di non aver mai incontrato nessuna donna (figurarsi un uomo!) che li avesse altrettanto belli e colmi di rassegnata solitudine.
Durante il primo giorno di lezione di Isa, Soufiane era entrato in aula con una ventina di minuti di ritardo. «Dov'è il vostro compagno?» aveva domandato lei alla classe, al momento di segnare le assenze sul registro.
«In bagno» avevano risposto i compagni e qualcuno si era perfino lasciato sfuggire una risatina ironica.
Soufiane era rimasto in bagno finché ne aveva avuto voglia.
In bagno, in cortile, oppure in officina - o in qualunque altro luogo della scuola fosse andato a rintanarsi prima di affrontare l'ennesimo avvenimento sgradito: la conoscenza di una nuova insegnante con cui, suo malgrado, avrebbe dovuto trascorrere un buon numero di ore e che, come molti altri, lo avrebbe rimbrottato, redarguito, detestato. Già gli pareva di sentirla: «Come ti permetti di andartene a zonzo durante le mie ore di lezione?», avrebbe strillato con la voce acuta e intollerabile delle donne in collera. Non erano tutte come sua madre, che non gridava mai, neppure quando suo padre afferrava i figli per i capelli trascinandoli sul linoleum della cucina fino all'angolo da cui non potevano fuggire.
Soufiane sospirò, gettò la sigaretta nel water e uscì dando un calcio alla porta.
Quando entrò in aula, Isa lo apostrofò con un semplice "Oh, buongiorno!". Soufiane, che si era diretto subito verso il banco senza degnarsi neppure di trovare una scusa plausibile per il proprio ritardo, la guardò di sottecchi e si sorprese nel constatare che - a dispetto del tono di voce serio e compunto - Isa stava sorridendo.
Non era un sorriso pungente né di sufficienza; era un reale e apertissimo sorriso divertito. Soufiane non poté non esserne contagiato: sorrise anch'egli, abbassando la visiera del cappellino di lana a mo' di difesa e, per pochi secondi, i suoi grandi occhi nocciola si illuminarono di allegria.
Per tutta la lezione rimase buono e silenzioso, con lo sguardo fisso su Isa che riassumeva trame di romanzi, passeggiando avanti e indietro davanti alla cattedra: non capiva tutto ciò che lei diceva (nessuno, dalla terza elementare in avanti si era mai premurato di insegnargli a leggere e a scrivere, perché Soufiane era un ragazzo "difficile da gestire" - avevano ribadito per anni maestri e professori), ma lo trovava insolito e colorato.
Il giorno successivo Soufiane rispose sgarbatamente alla richiesta dell'insegnante di scienze di levarsi il cappello in classe e, durante le ore di italiano, fu mandato per punizione a pulire l'officina.
La settimana successiva sgattaoiolò in cortile durante il cambio dell'ora ed entrò in aula in ritardo durante quasi tutte le lezioni di italiano e storia. Isa non diceva mai nulla: era stata informata per sommi capi della sua situazione, l'avevano messa in guardia sul conto di quel caparbio ragazzo tunisino che viveva nella comunità di recupero e, dopo aver ascoltato tutte le campane, lei aveva deciso di porre buone basi per i mesi a venire. Perciò, quando Soufiane arrivava in ritardo, lo accoglieva col solito "buongiorno" d'intesa; quando si distraeva e disturbava i compagni gli chiedeva gentilmente di tacere; quando si alzava senza permesso, lo pregava di ritornare al proprio posto. Non aveva bisogno di gridare perché Soufiane, a differenza di molti altri, non era arrogante.
Aveva un'intelligenza vivace e amava disegnare. Per Isa tracciò su un foglio la sagoma di un gatto: aveva il pelo irto e la bocca spalancata in un soffio impaurito, ma era pur sempre un gatto.
«Non è per fare della psicologia spicciola» aveva commentato Isa con la collega d'inglese, sventolando il disegno «ma certi segnali mi sembrano abbastanza eloquenti.»
Poco per volta, i ritardi all'inizio delle ore di italiano diminuirono: a dicembre Soufiane era sempre presente in classe quando Isa arrivava e faceva da interprete fra lei e un altro ragazzino extracomunitario, giunto in Italia da pochi mesi. Se chiedeva di andare in bagno, Isa sollevava un dito ammonitore e gli diceva seria «Mi raccomando: cinque minuti», ben ricordando quanto fosse bravo a eludere ogni sorveglianza. Soufiane sorrideva come il primo giorno e ripeteva «Cinque minuti», come se si trattasse di una solenne promessa. Cinque minuti dopo rientrava in classe e andava a sedersi, senza più muoversi fino al suono del campanello.
Isa era soddisfatta e stava organizzando un programma intensivo di esercizi per colmare le sue vaste lacune nella lingua scritta, quando accadde ciò che era inevitabile e Soufiane fu allontanato dalla scuola.

Continua...