In quei giorni stava accadendo tutto troppo rapidamente.
Il primo quadrimestre era giunto al termine e gli scrutini scolastici si intrecciavano alle ultime commissioni pre-natalizie. Emma era come non mai inquieta - e Isa sospettava che (a dispetto di tutte le convinzioni medico-veterinarie) avesse deciso di far coincidere il suo primo estro con il culmine della stagione invernale. Bisognava preparare la partenza per Parigi, verso la quale Isa nutriva ancora sentimenti contrastanti: lasciare soli i suoi animali - seppure solo per qualche giorno - la gettava sempre in uno stato di apprensione preventiva.
Inoltre, alle nove e trentaquattro della mattina della vigilia, la Casa dei Ranocchi doveva ancora essere rassettata e il pranzo per il Professore e sua moglie attendeva di essere preparato con la cura richiesta da ogni ricorrenza che si rispetti.
Isa non amava molto il Natale. Le ricordava troppo i nonni scomparsi, la follia di L., i litigi con Emiliano. Alle luci elettriche intermittenti, preferiva di gran lunga il lento cammino del sole a partire dal giorno del solstizio.
La sua malcelata malinconia non impediva tuttavia che per tutto il resto del mondo (o quasi) fosse Natale; e Isa si trovava suo malgrado costretta ad adeguarsi.
Mentre chiudeva il diario e si accingeva a intraprendere la lunga sequela dei lavori domestici, ripensò all'augurio che si era scambiata con uno dei suoi studenti, musulmano rigorosamente osservante. «Anche se non festeggerai, tanti auguri, Abdel» gli aveva detto Isa con voce stanca e la scopa in mano, mentre raccoglieva la briciole di panettone dal pavimento del corridoio.
«Anche a lei, prof» le aveva risposto Abdel con un sorriso. E Isa era certa che fosse sincero.
venerdì 24 dicembre 2010
Solidarietà femminile
Solo le parole di un'altra donna potevano lenire il dolore provocato in me dalle ferite inflitte dalla superficialità maschile.
sabato 11 dicembre 2010
Dell'intrecciarsi di gatti e destini - Parte terza
♦ Parte seconda ♦
Il giorno in cui volle scrivere di C., Isa si accorse di essere pietrificata.
Eppure doveva pur esserci il modo di parlare di lui, l'aggettivo che fermasse la sua bellezza prima della morte. Si disse che, qualora l'avesse trovato, si sarebbe sentita in pace, appagata dalle sue stesse parole.
In confronto a C., non si sentiva bella. Era troppo esile, con braccia e gambe troppo sottili. Quanto al suo viso, oscillava sempre tra il nervosismo e la preoccupazione, producendo un'arricciatura sgradevole fra le sopracciglia e una curva angosciata lungo le labbra.
A dirla tutta, Isa pensava che C. soffrisse di una forma acuta di presbiopia amorosa: la perfezione apparteneva a lui, sebbene sembrasse non rendersene conto. Era nel suo passo veloce e distratto (la testa abbassata, le mani in tasca, C. procedeva come se il mondo non fosse altro che un grigio accidente sotto lo splendore vergine del cielo); nella linea ambrata del suo fianco disteso sopra il letto nelle notti di luglio.
C. negava tutto, respingeva gli elogi di Isa. «Le mie mani sono così grandi» diceva «assomiglio a un gigante!»
In effetti una sola delle sue braccia poteva sollevarla senza fatica e, se le spalancava entrambe, diventava immenso quanto il ventre di una madre. Era impossibile scalfirlo, recargli dolore.
Allora, piccola come un seme, Isa si rifugiava dentro di lui, nell'abbraccio che sapeva di lana e d'inverno, in quell'amore semplice e lento che, grande quanto il fiume, procedeva attraverso le stagioni.
Adesso non sapeva perché non funzionasse più. Aveva creduto nell'eternità, nella tenerezza infinita di quel legame senza pretese - e ora si sentiva tradita. Dai sentimenti, dal tempo, dall'indifferenza del corpo di C., più che della sua mente.
Non riusciva a distaccarsi da lui e meno ancora dalla casa che insieme avevano sistemato, con i mobili in legno scuro, le tende vaporose e il profumo speziato dell'incenso che ne invadeva invisibile le stanze. Isa sospettava che dietro a quell'attaccamento tenace all'amore, al tempo e allo spazio vi fosse lo zampino dei gatti.
Di Clizia la veggente e di Cagliostro che intratteneva legami discreti con l'invisibile in primis; e poi di Emma che, bisognosa com'era di cure e carezze, cementò col suo arrivo quell'unione forte, seppure logorata.
«Che cosa devo fare?» domandava Isa nei pomeriggi di quel mese di dicembre mentre, davanti a un cappuccino caldo, discuteva con Cathy della dolorosa profondità di ogni sentimento amoroso.
Cathy sospirava, andando col pensiero al suo Uomo dell'Acqua; con i grandi occhi color pervinca fissava l'amica per qualche istante indecifrabile e infine le raccomandava di pazientare, di non compiere scelte affrettate. "Lasciati vivere" era la loro parola d'ordine.
Per questo, come si raccontava, Isa fu lieta di accettare il lavoro d'insegnante presso la scuola di A.: impegnare il tempo le avrebbe impedito di pensare, di fare telefonate complesse al Cappellaio Matto, di umiliarsi nel dispensare abbracci non contraccambiati e di porsi domande che implicavano risposte disperate.
Nel tentativo di scordarsi dell'amore, si chiuse nel mondo chiassoso e impregnato del dolce aroma di cannabis della piccola scuola di periferia; non poteva sapere che, proprio là, avrebbe fatto esperienza di una forma ancora più alta e perfetta d'abnegazione: l'amore per il figlio che (fino a quel momento ne era stata certa) non avrebbe mai avuto...
♦ Continua... ♦
Il giorno in cui volle scrivere di C., Isa si accorse di essere pietrificata.
Eppure doveva pur esserci il modo di parlare di lui, l'aggettivo che fermasse la sua bellezza prima della morte. Si disse che, qualora l'avesse trovato, si sarebbe sentita in pace, appagata dalle sue stesse parole.
In confronto a C., non si sentiva bella. Era troppo esile, con braccia e gambe troppo sottili. Quanto al suo viso, oscillava sempre tra il nervosismo e la preoccupazione, producendo un'arricciatura sgradevole fra le sopracciglia e una curva angosciata lungo le labbra.
A dirla tutta, Isa pensava che C. soffrisse di una forma acuta di presbiopia amorosa: la perfezione apparteneva a lui, sebbene sembrasse non rendersene conto. Era nel suo passo veloce e distratto (la testa abbassata, le mani in tasca, C. procedeva come se il mondo non fosse altro che un grigio accidente sotto lo splendore vergine del cielo); nella linea ambrata del suo fianco disteso sopra il letto nelle notti di luglio.
C. negava tutto, respingeva gli elogi di Isa. «Le mie mani sono così grandi» diceva «assomiglio a un gigante!»
In effetti una sola delle sue braccia poteva sollevarla senza fatica e, se le spalancava entrambe, diventava immenso quanto il ventre di una madre. Era impossibile scalfirlo, recargli dolore.
Allora, piccola come un seme, Isa si rifugiava dentro di lui, nell'abbraccio che sapeva di lana e d'inverno, in quell'amore semplice e lento che, grande quanto il fiume, procedeva attraverso le stagioni.
Adesso non sapeva perché non funzionasse più. Aveva creduto nell'eternità, nella tenerezza infinita di quel legame senza pretese - e ora si sentiva tradita. Dai sentimenti, dal tempo, dall'indifferenza del corpo di C., più che della sua mente.
Non riusciva a distaccarsi da lui e meno ancora dalla casa che insieme avevano sistemato, con i mobili in legno scuro, le tende vaporose e il profumo speziato dell'incenso che ne invadeva invisibile le stanze. Isa sospettava che dietro a quell'attaccamento tenace all'amore, al tempo e allo spazio vi fosse lo zampino dei gatti.
Di Clizia la veggente e di Cagliostro che intratteneva legami discreti con l'invisibile in primis; e poi di Emma che, bisognosa com'era di cure e carezze, cementò col suo arrivo quell'unione forte, seppure logorata.
«Che cosa devo fare?» domandava Isa nei pomeriggi di quel mese di dicembre mentre, davanti a un cappuccino caldo, discuteva con Cathy della dolorosa profondità di ogni sentimento amoroso.
Cathy sospirava, andando col pensiero al suo Uomo dell'Acqua; con i grandi occhi color pervinca fissava l'amica per qualche istante indecifrabile e infine le raccomandava di pazientare, di non compiere scelte affrettate. "Lasciati vivere" era la loro parola d'ordine.
Per questo, come si raccontava, Isa fu lieta di accettare il lavoro d'insegnante presso la scuola di A.: impegnare il tempo le avrebbe impedito di pensare, di fare telefonate complesse al Cappellaio Matto, di umiliarsi nel dispensare abbracci non contraccambiati e di porsi domande che implicavano risposte disperate.
Nel tentativo di scordarsi dell'amore, si chiuse nel mondo chiassoso e impregnato del dolce aroma di cannabis della piccola scuola di periferia; non poteva sapere che, proprio là, avrebbe fatto esperienza di una forma ancora più alta e perfetta d'abnegazione: l'amore per il figlio che (fino a quel momento ne era stata certa) non avrebbe mai avuto...
♦ Continua... ♦
domenica 5 dicembre 2010
Solo per la bellezza delle parole
Il mio amore per te è tutto da rifare e da riscrivere. Gli amori non corrisposti dovrebbero essere vietati per legge: generano troppo dolore, rancore, insoddisfazione.
Perché io ti amo, questo è sicuro; né riesco ad attenuare questa smania che mi spinge ogni giorno verso di te. Mentre tu non provi altro che una vaga affezione per la bellezza delle mie parole.
Perché io ti amo, questo è sicuro; né riesco ad attenuare questa smania che mi spinge ogni giorno verso di te. Mentre tu non provi altro che una vaga affezione per la bellezza delle mie parole.
martedì 23 novembre 2010
Il nuovo lavoro
I periodi in cui Isa si ritrovava senza lavoro erano i peggiori. Non solo per ovvie questioni economiche, ma anche perché in genere coincidevano con la stagione invernale, che Isa detestava con tutta la forza del suo cuore tremulo.
Il contratto presso il "Laboratorio di Lotta Biologica ed Integrata alle Zanzare" scadde il trenta settembre duemiladieci. Isa salutò i colleghi con un'abbondante colazione a base di torta al cioccolato, focaccia e dolce al melograno, promise a Cathy e a Iaia che si sarebbero riviste presto e si preparò a trascorrere una lunga stagione nel calore ovattato della sua casa.
«E ti dispiace?» le chiese Luna, incredula.
«Lo sai come va a finire: io penso troppo. E quando penso...» Isa mimò un'esplosione.
Quell'anno, tuttavia, non sarebbe esplosa. Non nel modo consueto.
Ai primi di novembre ricevette la telefonata del direttore di una scuola di formazione professionale della città di A.: la cattedra di italianostoriageografia era scoperta e c'era necessità di reperire entro breve un'insegnante per un pacchetto di cinquecentosettantasei ore, con stipendio piùchedignitosobimestrale e relativo contrattoaprogetto. «Lei sarebbe disponibile?»
Isa rimase senza fiato: non insegnava da diciassette mesi e quarantatré giorni e non era certa di ricordare la giusta ricetta per trasmettereconoscenze-conquistarelafiduciadegliallievi-cercaredinonfarsicoinvolgeretroppoalivelloemozionale. Esitò un istante, il tempo di prendere una boccata d'aria, prima di gettarsi coraggiosamente, ancora una volta, nella chiassosa bolgia della scuola italiana.
Iniziò lunedì quindici novembre. Sveglia alle cinque e trenta, cinquantasette chilometri alla guida della piccola vecchia Ford con la radio alta per sconfiggere la paura insita in ogni nuovo inizio e una pila di buoni libri addormentata sul sedile del passeggero.
«Se non ti trovi bene, potrai sempre rinunciare» le aveva detto il Professore, che in vita sua non si era mai arreso di fronte alle difficoltà.
«E, mi raccomando,» aveva aggiunto Simonetta, la professoressa di Isa al ginnasio, che ben conosceva la cocciutaggine lacrimosa della sua ex-allieva «ricorda che non puoi cambiare il mondo da sola.»
Così, si diceva, ebbe inizio: contrariamente alle esperienze lavorative precedenti, senza alcuna progettazione; la convocazione fu troppo rapida e inaspettata perché Isa potesse riflettere sulle implicazioni di quel particolare tipo di impiego e sui cambiamenti che avrebbe prodotto nella sua vita. Eppure le ore trascorse, giorno dopo giorno, con quei ragazzi scapestrati, non di rado volgari e al contempo privi di ogni difesa avrebbero in qualche modo modificato la sua percezione della realtà - che, fino a quel giorno, era rimasta invischiata fra i malumori del Cappellaio Matto, l'inconsapevole crudeltà di C. e quel poco di conforto donatole dalla lettura e dal morbido affetto dei tre gatti e del fedele Mickey.
Quanto, poi, alla triste storia di Soufiane, quella cominciò (nella sua forma più tragica e caparbia) giovedì due dicembre. Ma di questo si parlerà in seguito...
Il contratto presso il "Laboratorio di Lotta Biologica ed Integrata alle Zanzare" scadde il trenta settembre duemiladieci. Isa salutò i colleghi con un'abbondante colazione a base di torta al cioccolato, focaccia e dolce al melograno, promise a Cathy e a Iaia che si sarebbero riviste presto e si preparò a trascorrere una lunga stagione nel calore ovattato della sua casa.
«E ti dispiace?» le chiese Luna, incredula.
«Lo sai come va a finire: io penso troppo. E quando penso...» Isa mimò un'esplosione.
Quell'anno, tuttavia, non sarebbe esplosa. Non nel modo consueto.
Ai primi di novembre ricevette la telefonata del direttore di una scuola di formazione professionale della città di A.: la cattedra di italianostoriageografia era scoperta e c'era necessità di reperire entro breve un'insegnante per un pacchetto di cinquecentosettantasei ore, con stipendio piùchedignitosobimestrale e relativo contrattoaprogetto. «Lei sarebbe disponibile?»
Isa rimase senza fiato: non insegnava da diciassette mesi e quarantatré giorni e non era certa di ricordare la giusta ricetta per trasmettereconoscenze-conquistarelafiduciadegliallievi-cercaredinonfarsicoinvolgeretroppoalivelloemozionale. Esitò un istante, il tempo di prendere una boccata d'aria, prima di gettarsi coraggiosamente, ancora una volta, nella chiassosa bolgia della scuola italiana.
Iniziò lunedì quindici novembre. Sveglia alle cinque e trenta, cinquantasette chilometri alla guida della piccola vecchia Ford con la radio alta per sconfiggere la paura insita in ogni nuovo inizio e una pila di buoni libri addormentata sul sedile del passeggero.
«Se non ti trovi bene, potrai sempre rinunciare» le aveva detto il Professore, che in vita sua non si era mai arreso di fronte alle difficoltà.
«E, mi raccomando,» aveva aggiunto Simonetta, la professoressa di Isa al ginnasio, che ben conosceva la cocciutaggine lacrimosa della sua ex-allieva «ricorda che non puoi cambiare il mondo da sola.»
Così, si diceva, ebbe inizio: contrariamente alle esperienze lavorative precedenti, senza alcuna progettazione; la convocazione fu troppo rapida e inaspettata perché Isa potesse riflettere sulle implicazioni di quel particolare tipo di impiego e sui cambiamenti che avrebbe prodotto nella sua vita. Eppure le ore trascorse, giorno dopo giorno, con quei ragazzi scapestrati, non di rado volgari e al contempo privi di ogni difesa avrebbero in qualche modo modificato la sua percezione della realtà - che, fino a quel giorno, era rimasta invischiata fra i malumori del Cappellaio Matto, l'inconsapevole crudeltà di C. e quel poco di conforto donatole dalla lettura e dal morbido affetto dei tre gatti e del fedele Mickey.
Quanto, poi, alla triste storia di Soufiane, quella cominciò (nella sua forma più tragica e caparbia) giovedì due dicembre. Ma di questo si parlerà in seguito...
lunedì 8 novembre 2010
Esercizi di stile
Le donne si innamorano spesso dell'uomo sbagliato.
D'accordo, non per tutte vale questa regola: alcune sono certo equilibrate, emancipate, rettissime e, dunque, possono interrompere qui e ora la lettura oppure proseguirla ed esserne infastidite.
Non ha importanza, poiché questa pagina è dedicata all'altra categoria: alle Malinconiche, alle Confusionarie, a tutte coloro, insomma, che compiono sempre la scelta sbagliata e si dimostrano incapaci di imparare alcunché dai propri devastanti errori.
Isa ci rifletteva mentre intagliava la sua zucca per la Festa dei Morti.
Non amava Halloween: era una festa troppo pacchiana per i suoi gusti. Gli zombie, le ragnatele finte, i bianchi fantasmini da due soldi appesi alle finestre... Considerava quella paccottiglia di cattivo gusto e rifiutava di imbruttire la sua casa con ragni e zucche di plastica. Preferiva chiudere in casa i gatti (soprattutto Cagliostro: non voleva che facesse la fine del povero gatto nero ritrovato a Tronzano Vercellese nel 2009, con le quattro zampette bloccate con un doppio giro di filo spinato) e dedicarsi ad ascoltare voci e sussurri nelle ore delicate del trapasso, la notte fra il 31 ottobre e il 1° novembre.
Come la sua bisnonna Arcangela, preparava una gustosa zuppa di ceci e ne lasciava un piatto colmo sul tavolo della cucina, per i morti della sua famiglia che sarebbero tornati a ristorarsi, e cambiava le lenzuola nel letto nel caso avessero gradito fare un riposino prima di ripartire.
Quell'anno, però, i gesti con cui Isa intagliava la superficie arancione della grande zucca tradivano un certo nervosismo.
Non riusciva infatti a togliersi dalla mente quanto scritto da Robin Norwood:
Si sentiva in difetto: sapeva bene, infatti, di aver sempre cercato l'approvazione altrui. Fin da bambina (quando si struggeva affinché il Professore fosse orgoglioso di lei) passando attraverso la travagliata adolescenza e il pericoloso amore per Denis.
A tutt'oggi sapeva di non aver fatto il proprio interesse, rivelando a C. il disagio psicologico che provava negli ultimi mesi. («D'accordo, è la crisi del terzo anno... Ma non la risolveremo facendo l'amore o mettendo al mondo un bambino.» «Del resto... non sarei neppure una buona madre.» «Allo stato attuale delle cose no, non credo...») Nel corso delle loro estenuanti discussioni degli ultimi undici mesi, ciò che più aveva desiderato era che C. la giudicasse onesta e virtuosa, che fosse fiero, nonostante tutto, della donna sincera che aveva scelto come convivente.
«Oh, è tutto sbagliato!» esclamò Isa conficcando il coltellino nella polpa umida della zucca.
Al diavolo la soddisfazione di C.! Era della propria felicità che avrebbe dovuto occuparsi! E invece perdeva tempo a centellinare le opinioni altrui: di C., del Cappellaio Matto...
In quel mentre Cagliostro salì sul tavolo e infilò una zampetta sotto la zucca. «Levala o rischierò di farti male...» Il gatto sedette allora composto, le orecchie tese in avanti, la coda che gli circondava il corpo. Qualche istante dopo tornò alla carica, di nuovo allungando la zampa. Isa sorrise accarezzandolo e lasciò che i pensieri deviassero verso l'amore che provava per quella piccola seducente creatura.
Comprese (lo aveva già intuito in passato ma, in quel malinconico pomeriggio autunnale, la consapevolezza fu nitida come una calda giornata estiva) che il legame d'amore che univa reciprocamente lei e i suoi gatti si rafforzava giorno dopo giorno in virtù della discrezione e della dignità che lo caratterizzavano.
Forse è per questo, si disse, che i gatti preferiscono le donne.
Ne aveva parlato anche Jeffrey M. Masson, quando scrisse che i gatti tendono ad andare d'accordo con le donne più che con gli uomini poiché esse, di norma, sono meno autoritarie e inclini a voler stabilire un diritto di possesso sui propri animali [2].
Streghe, zitelle, regine: per secoli, attraverso la storia, centinaia, migliaia di donne senza nome avevano cercato e desiderato la compagnia dei gatti, grate per il silenzio di quell'amore mai soffocante e tuttavia innegabile.
Isa non aveva dubbi che Cagliostro, Clizia ed Emma la amassero e si ritrovava spesso a sorridere, quando si imbatteva nel solito luogo comune secondo cui i gatti amerebbero la loro casa più di qualsiasi essere umano. I gatti, al contrario, la amavano, ricambiati, di un amore discreto, fatto di lunghi sguardi, di tocchi appena accennati e spazi di solitudine ricavati nelle quattro stanze della Casa dei Ranocchi.
Isa sapeva quanto fosse ingiusto accusarla di eccessiva possessività e di petulanza. Non aveva mai voluto possedere il cuore, l'anima e la mente di nessuno: sarebbe stato un onere troppo gravoso, una responsabilità insostenibile e spossante. Piuttosto, anelava a un amore dignitoso per entrambe le parti in causa, che non la gettasse ogni giorno nell'ansia dell'incertezza e che si costituisse, tuttavia, di pochi gesti e poche parole.
Non amava la ridondanza, detestava dover inseguire le persone per ottenere chiarimenti e sincerità. Così spesso vi rinunciava e restava sola in casa, a rimuginare sull'inutilità dei propri sentimenti mal corrisposti.
In genere, a quel punto, dopo essere stata accusata dall'uomo di turno di eccessiva insistenza, si sentiva rinfacciare di essere incostante, volubile. «Perché non parli, perché fuggi? Ti sei già stancata?»
Stancata! E se avessero avuto ragione loro, gli uomini? Dopo tanti anni, non sapeva più da che parte stesse la verità.
Aveva finito di svuotare la zucca. Ora non restava che intagliarla, assottigliandone le pareti nei punti giusti del disegno, in modo tale che la luce della candela potesse raggiungere l'esterno in trasparenza.
Prima di procedere, però, Isa si lavò le mani, prese il diario e annotò fedelmente:
Cagliostro, seduto di fronte a lei come ogni guardiano che si rispetti, iniziò a ronfare sonoramente, strofinando la fronte contro la sua mano. Isa sospirò, rimproverando se stessa per aver ancora una volta dimenticato la lezione che i suoi gatti non cessavano mai di impartirle.
[1] R. Norwood, Donne che amano troppo, Feltrinelli, Milano 1989.
[2] Jeffrey M. Masson, La vita emotiva dei gatti, Il Saggiatore, Milano 2008.
D'accordo, non per tutte vale questa regola: alcune sono certo equilibrate, emancipate, rettissime e, dunque, possono interrompere qui e ora la lettura oppure proseguirla ed esserne infastidite.
Non ha importanza, poiché questa pagina è dedicata all'altra categoria: alle Malinconiche, alle Confusionarie, a tutte coloro, insomma, che compiono sempre la scelta sbagliata e si dimostrano incapaci di imparare alcunché dai propri devastanti errori.
Isa ci rifletteva mentre intagliava la sua zucca per la Festa dei Morti.
Non amava Halloween: era una festa troppo pacchiana per i suoi gusti. Gli zombie, le ragnatele finte, i bianchi fantasmini da due soldi appesi alle finestre... Considerava quella paccottiglia di cattivo gusto e rifiutava di imbruttire la sua casa con ragni e zucche di plastica. Preferiva chiudere in casa i gatti (soprattutto Cagliostro: non voleva che facesse la fine del povero gatto nero ritrovato a Tronzano Vercellese nel 2009, con le quattro zampette bloccate con un doppio giro di filo spinato) e dedicarsi ad ascoltare voci e sussurri nelle ore delicate del trapasso, la notte fra il 31 ottobre e il 1° novembre.
Come la sua bisnonna Arcangela, preparava una gustosa zuppa di ceci e ne lasciava un piatto colmo sul tavolo della cucina, per i morti della sua famiglia che sarebbero tornati a ristorarsi, e cambiava le lenzuola nel letto nel caso avessero gradito fare un riposino prima di ripartire.
Quell'anno, però, i gesti con cui Isa intagliava la superficie arancione della grande zucca tradivano un certo nervosismo.
Non riusciva infatti a togliersi dalla mente quanto scritto da Robin Norwood:
Quando l'autoaccettazione e l'amore di sé cominciano a svilupparsi e a consolidarsi, allora siamo pronte a voler consapevolmente essere solo noi stesse, senza cercare di essere compiacenti, senza impegnarci in atti spettacolosi calcolati per conquistare l'approvazione e l'amore di un'altra persona. [1]
Si sentiva in difetto: sapeva bene, infatti, di aver sempre cercato l'approvazione altrui. Fin da bambina (quando si struggeva affinché il Professore fosse orgoglioso di lei) passando attraverso la travagliata adolescenza e il pericoloso amore per Denis.
A tutt'oggi sapeva di non aver fatto il proprio interesse, rivelando a C. il disagio psicologico che provava negli ultimi mesi. («D'accordo, è la crisi del terzo anno... Ma non la risolveremo facendo l'amore o mettendo al mondo un bambino.» «Del resto... non sarei neppure una buona madre.» «Allo stato attuale delle cose no, non credo...») Nel corso delle loro estenuanti discussioni degli ultimi undici mesi, ciò che più aveva desiderato era che C. la giudicasse onesta e virtuosa, che fosse fiero, nonostante tutto, della donna sincera che aveva scelto come convivente.
«Oh, è tutto sbagliato!» esclamò Isa conficcando il coltellino nella polpa umida della zucca.
Al diavolo la soddisfazione di C.! Era della propria felicità che avrebbe dovuto occuparsi! E invece perdeva tempo a centellinare le opinioni altrui: di C., del Cappellaio Matto...
In quel mentre Cagliostro salì sul tavolo e infilò una zampetta sotto la zucca. «Levala o rischierò di farti male...» Il gatto sedette allora composto, le orecchie tese in avanti, la coda che gli circondava il corpo. Qualche istante dopo tornò alla carica, di nuovo allungando la zampa. Isa sorrise accarezzandolo e lasciò che i pensieri deviassero verso l'amore che provava per quella piccola seducente creatura.
Comprese (lo aveva già intuito in passato ma, in quel malinconico pomeriggio autunnale, la consapevolezza fu nitida come una calda giornata estiva) che il legame d'amore che univa reciprocamente lei e i suoi gatti si rafforzava giorno dopo giorno in virtù della discrezione e della dignità che lo caratterizzavano.
Forse è per questo, si disse, che i gatti preferiscono le donne.
Ne aveva parlato anche Jeffrey M. Masson, quando scrisse che i gatti tendono ad andare d'accordo con le donne più che con gli uomini poiché esse, di norma, sono meno autoritarie e inclini a voler stabilire un diritto di possesso sui propri animali [2].
Streghe, zitelle, regine: per secoli, attraverso la storia, centinaia, migliaia di donne senza nome avevano cercato e desiderato la compagnia dei gatti, grate per il silenzio di quell'amore mai soffocante e tuttavia innegabile.
Isa non aveva dubbi che Cagliostro, Clizia ed Emma la amassero e si ritrovava spesso a sorridere, quando si imbatteva nel solito luogo comune secondo cui i gatti amerebbero la loro casa più di qualsiasi essere umano. I gatti, al contrario, la amavano, ricambiati, di un amore discreto, fatto di lunghi sguardi, di tocchi appena accennati e spazi di solitudine ricavati nelle quattro stanze della Casa dei Ranocchi.
Isa sapeva quanto fosse ingiusto accusarla di eccessiva possessività e di petulanza. Non aveva mai voluto possedere il cuore, l'anima e la mente di nessuno: sarebbe stato un onere troppo gravoso, una responsabilità insostenibile e spossante. Piuttosto, anelava a un amore dignitoso per entrambe le parti in causa, che non la gettasse ogni giorno nell'ansia dell'incertezza e che si costituisse, tuttavia, di pochi gesti e poche parole.
Non amava la ridondanza, detestava dover inseguire le persone per ottenere chiarimenti e sincerità. Così spesso vi rinunciava e restava sola in casa, a rimuginare sull'inutilità dei propri sentimenti mal corrisposti.
In genere, a quel punto, dopo essere stata accusata dall'uomo di turno di eccessiva insistenza, si sentiva rinfacciare di essere incostante, volubile. «Perché non parli, perché fuggi? Ti sei già stancata?»
Stancata! E se avessero avuto ragione loro, gli uomini? Dopo tanti anni, non sapeva più da che parte stesse la verità.
Aveva finito di svuotare la zucca. Ora non restava che intagliarla, assottigliandone le pareti nei punti giusti del disegno, in modo tale che la luce della candela potesse raggiungere l'esterno in trasparenza.
Prima di procedere, però, Isa si lavò le mani, prese il diario e annotò fedelmente:
Quando amo fuggo, perché l'amore brucia e non so più scottarmi le dita. Appena arrivata, penso a ripartire. Temo l'inverno, quando la vita è senza colori. Accuso gli altri di allontanarsi da me, ma sono io, che me ne vado. Dei miei gatti adoro la discrezione, del mio cane l'affetto incondizionato: i primi ne possiedon...o la giusta misura, il secondo vanta una qualità che a me è sempre mancata...
Cagliostro, seduto di fronte a lei come ogni guardiano che si rispetti, iniziò a ronfare sonoramente, strofinando la fronte contro la sua mano. Isa sospirò, rimproverando se stessa per aver ancora una volta dimenticato la lezione che i suoi gatti non cessavano mai di impartirle.
[1] R. Norwood, Donne che amano troppo, Feltrinelli, Milano 1989.
[2] Jeffrey M. Masson, La vita emotiva dei gatti, Il Saggiatore, Milano 2008.
mercoledì 20 ottobre 2010
Dell'intrecciarsi di gatti e destini - Parte seconda
♦ Parte I ♦
A., ovvero l'Ipocrita, era belloccio. Non possedeva la grazia di Emiliano, né la fisionomia aperta e rassicurante di D., ma aveva una cert'aria scanzonata che piaceva alle donne.
Era convinto di essere molto sfortunato e cercava perciò di rifarsi a scapito di coloro che lo circondavano: i genitori, gli amici, la fidanzata, la passioncella di turno...
Desiderava tutto e il contrario di tutto e, per ottenerlo, inventava una menzogna dopo l'altra.
«E' un "bugiardo patologico"» citò Isa durante una cena con Luna, la "Zia" e M.
Da qualche mese, infatti, sosteneva lo sgradito ruolo di "amante", "terzo incomodo", "altra donna".
«Potrebbe diventare un ottimo scrittore, se solo conoscesse meglio la grammatica e l'ortografia» replicò M., che detestava A. per le sue lacune sull'utilizzo di apostrofi e accenti e - peccato imperdonabile - per la sua mancanza di riguardo nei confronti di Isa.
«E' convinto di essere un Casanova» proseguì la "Zia" con una smorfia di disgusto. «Vi ammalia tutte con la storia della sua disgraziatissima vita; e voi, pronte ad abboccare all'amo come stupidi pesci!»
La "Zia" non aveva torto. L'Ipocrita era solito affermare di essere cresciuto "tra molte difficoltà" non meglio definite, levando uno scudo di carta a protezione della propria bassezza morale. «Ingannare me non è facile!» si vantava.
Non si rendeva conto di essere stato smascherato mille volte e mille volte perdonato in nome di quell'amore che non meritava.
Conobbe Isa in ottobre e a novembre già l'amava alla follia. La pensava di giorno e la desiderava di notte, mentre divideva il letto con la fidanzata.
«Io ti amo!» esclamava con sanguigno fervore. «E ti giuro che fino a oggi non l'avevo mai detto a nessuna donna!»
Isa avrebbe voluto domandargli come potesse, dunque, accettare l'abbraccio di un'altra donna; ma sapeva che avrebbe dato inizio a lunghi e dolorosi battibecchi. Così si limitava a sorridergli. fingendosi orgogliosa di un amore tanto modesto.
L'Ipocrita si permetteva addirittura di sfogare sulle due scioccherelle i suoi malumori: quando sentiva crescere la noia o il nervosismo all'interno della famiglia superava i livelli di guardia, trovava comodo prenderle a male parole, fingendosi poi gravemente afflitto. Dopotutto, non era forse colpa di Isa e della bistrattata fidanzata, se non si sentiva appagato?
Isa, dal canto suo, lo cercava al telefono, implorandolo di confidarle le sue pene: una parte di lei era ancora convinta della bontà di A. e tentava, cieca e disperata, di aggrapparsi all'ultima speranza. «Ma che cos'hai? E' colpa mia? Ti ho fatto qualcosa? Ti prego, parla...»
«Insomma, voglio stare solo, per riflettere sui casi miei. Mi farò vivo io, quando mi sarà passata...»
E la ragazza attendeva, consumandosi. Non mangiava, non dormiva, piangeva spesso.
Né era in condizioni migliori la fidanzata ufficiale: tramite amici comuni, Isa era venuta a sapere che anche lei continuava a perdere peso e si rifiutava di uscire di casa.
Eppure nessuna delle due sembrava intenzionata a desistere: entrambe volevano conquistare in esclusiva l'affetto di quel bel campione.
Quanto all'Ipocrita, nei momenti buoni affettava sofferenza e contrizione. «Non sai quanto mi dispiaccia allontanarmi da te» diceva a Isa, «ma cerca di capire: mi trovo in una situazione difficile!»
Non aveva torto: doveva tenere a bada due donne contemporaneamente ed era costretto a mentire ogni giorno in maniera convincente.
«Porta pazienza» diceva all'una. «Vedrai che un giorno avremo la nostra felicità!» E all'altra: «Amore mio, non devi essere gelosa: tu sei la cosa più bella che io possieda!».
Quando, finalmente - in seguito all'arrivo di C. - si ruppe l'incanto, Isa si sentì molto leggera e molto sciocca. Pensò all'Ipocrita dapprima con rabbia e poi con divertito distacco. Ritenne tuttavia che fosse un peccato gettarsi alle spalle la sua unica e disastrosa esperienza di amante senza cercare di ricavarne del buono. Perciò, dopo mesi, scrisse un gustoso raccontino a proposito di due donne ingenue e di un uomo bugiardo e vanaglorioso. Compiuto quell'esorcismo, tornò a respirare...
Il lettore avrà notato che, nel corso delle ultime (dis)avventure sentimentali di Isa, nessun gatto aveva preso il posto di Atena. Isa e Mickey erano rimasti soli: il cane quieto e silenzioso e la trepidante giovane donna che amava vestirsi di scuro e leggere storie lacrimevoli e tormentate. Paola, la madre di Isa, del resto, era stata chiara: per quanto avesse amato Atena, quell'irascibile gatta aveva combinato troppi disastri in casa e la signora non si sentiva pronta, in tempi brevi, alla convivenza con un nuovo felino. Isa si straziava e, riconsiderando a distanza di anni gli avvenimenti di quel periodo, si convinse che forse, se accompagnati da un gatto, lei e Mickey avrebbero commesso molti meno errori di valutazione. Il suo desiderio, tuttavia, non sarebbe rimasto ancora a lungo inappagato...
♦ Continua... ♦
A., ovvero l'Ipocrita, era belloccio. Non possedeva la grazia di Emiliano, né la fisionomia aperta e rassicurante di D., ma aveva una cert'aria scanzonata che piaceva alle donne.
Era convinto di essere molto sfortunato e cercava perciò di rifarsi a scapito di coloro che lo circondavano: i genitori, gli amici, la fidanzata, la passioncella di turno...
Desiderava tutto e il contrario di tutto e, per ottenerlo, inventava una menzogna dopo l'altra.
«E' un "bugiardo patologico"» citò Isa durante una cena con Luna, la "Zia" e M.
Da qualche mese, infatti, sosteneva lo sgradito ruolo di "amante", "terzo incomodo", "altra donna".
«Potrebbe diventare un ottimo scrittore, se solo conoscesse meglio la grammatica e l'ortografia» replicò M., che detestava A. per le sue lacune sull'utilizzo di apostrofi e accenti e - peccato imperdonabile - per la sua mancanza di riguardo nei confronti di Isa.
«E' convinto di essere un Casanova» proseguì la "Zia" con una smorfia di disgusto. «Vi ammalia tutte con la storia della sua disgraziatissima vita; e voi, pronte ad abboccare all'amo come stupidi pesci!»
La "Zia" non aveva torto. L'Ipocrita era solito affermare di essere cresciuto "tra molte difficoltà" non meglio definite, levando uno scudo di carta a protezione della propria bassezza morale. «Ingannare me non è facile!» si vantava.
Non si rendeva conto di essere stato smascherato mille volte e mille volte perdonato in nome di quell'amore che non meritava.
Conobbe Isa in ottobre e a novembre già l'amava alla follia. La pensava di giorno e la desiderava di notte, mentre divideva il letto con la fidanzata.
«Io ti amo!» esclamava con sanguigno fervore. «E ti giuro che fino a oggi non l'avevo mai detto a nessuna donna!»
Isa avrebbe voluto domandargli come potesse, dunque, accettare l'abbraccio di un'altra donna; ma sapeva che avrebbe dato inizio a lunghi e dolorosi battibecchi. Così si limitava a sorridergli. fingendosi orgogliosa di un amore tanto modesto.
L'Ipocrita si permetteva addirittura di sfogare sulle due scioccherelle i suoi malumori: quando sentiva crescere la noia o il nervosismo all'interno della famiglia superava i livelli di guardia, trovava comodo prenderle a male parole, fingendosi poi gravemente afflitto. Dopotutto, non era forse colpa di Isa e della bistrattata fidanzata, se non si sentiva appagato?
Isa, dal canto suo, lo cercava al telefono, implorandolo di confidarle le sue pene: una parte di lei era ancora convinta della bontà di A. e tentava, cieca e disperata, di aggrapparsi all'ultima speranza. «Ma che cos'hai? E' colpa mia? Ti ho fatto qualcosa? Ti prego, parla...»
«Insomma, voglio stare solo, per riflettere sui casi miei. Mi farò vivo io, quando mi sarà passata...»
E la ragazza attendeva, consumandosi. Non mangiava, non dormiva, piangeva spesso.
Né era in condizioni migliori la fidanzata ufficiale: tramite amici comuni, Isa era venuta a sapere che anche lei continuava a perdere peso e si rifiutava di uscire di casa.
Eppure nessuna delle due sembrava intenzionata a desistere: entrambe volevano conquistare in esclusiva l'affetto di quel bel campione.
Quanto all'Ipocrita, nei momenti buoni affettava sofferenza e contrizione. «Non sai quanto mi dispiaccia allontanarmi da te» diceva a Isa, «ma cerca di capire: mi trovo in una situazione difficile!»
Non aveva torto: doveva tenere a bada due donne contemporaneamente ed era costretto a mentire ogni giorno in maniera convincente.
«Porta pazienza» diceva all'una. «Vedrai che un giorno avremo la nostra felicità!» E all'altra: «Amore mio, non devi essere gelosa: tu sei la cosa più bella che io possieda!».
Quando, finalmente - in seguito all'arrivo di C. - si ruppe l'incanto, Isa si sentì molto leggera e molto sciocca. Pensò all'Ipocrita dapprima con rabbia e poi con divertito distacco. Ritenne tuttavia che fosse un peccato gettarsi alle spalle la sua unica e disastrosa esperienza di amante senza cercare di ricavarne del buono. Perciò, dopo mesi, scrisse un gustoso raccontino a proposito di due donne ingenue e di un uomo bugiardo e vanaglorioso. Compiuto quell'esorcismo, tornò a respirare...
Il lettore avrà notato che, nel corso delle ultime (dis)avventure sentimentali di Isa, nessun gatto aveva preso il posto di Atena. Isa e Mickey erano rimasti soli: il cane quieto e silenzioso e la trepidante giovane donna che amava vestirsi di scuro e leggere storie lacrimevoli e tormentate. Paola, la madre di Isa, del resto, era stata chiara: per quanto avesse amato Atena, quell'irascibile gatta aveva combinato troppi disastri in casa e la signora non si sentiva pronta, in tempi brevi, alla convivenza con un nuovo felino. Isa si straziava e, riconsiderando a distanza di anni gli avvenimenti di quel periodo, si convinse che forse, se accompagnati da un gatto, lei e Mickey avrebbero commesso molti meno errori di valutazione. Il suo desiderio, tuttavia, non sarebbe rimasto ancora a lungo inappagato...
♦ Continua... ♦
domenica 17 ottobre 2010
Dell'intrecciarsi di gatti e destini - Parte prima
Dove, dopo alcune pagine scarsamente chiarificatrici, si va a porre le basi della storia, raccontando per sommi capi il passato di Isa e dei suoi gatti.
Il Professore e sua moglie erano appassionati amanti degli animali, ma non avevano alcuna dimestichezza coi gatti.
Il Professore nutriva verso di loro una naturale diffidenza e la signora li teneva a debita distanza, forse segnata dalla triste storia del gatto che possedeva da bambina, scomparso in circostanze misteriose – con ogni probabilità cucinato dal vicino di casa che non disprezzava il sapore delle carni feline.
I primi gatti ad arrivare nella famiglia di Isa (sono sempre i gatti a scegliere gli esseri umani; non accade mai il contrario, per quanto agli uomini piaccia convincersene) furono Micia e suo figlio, Chicco. Nomi non particolarmente originali, ma non si può pretendere riferimenti letterari, storici o filosofici, da una bambina di otto anni.
Chicco e Micia, in verità, erano i denutriti gatti del signor Federico; nel giro di un autunno e un'estate divennero i pasciuti e affezionati famigli di Isa che, a quell'epoca, trascorreva nella piccola casa in collina i mesi più caldi dell'anno e tutti i fine settimana.
Con la vendita della casa (avvenimento che ancora oggi non cessa di suscitare in Isa grande commozione), dei due gatti non si seppe più nulla: il Professore e la moglie non avevano intenzione di rendere il furto definitivo, portandoli in città; e Isa non potè fare altro che ricordarli con affetto negli anni a venire, sentendosi in colpa per averli abbandonati nelle mani del parsimonioso signor Federico.
Gli anni dell'adolescenza furono segnati per Isa da grande sofferenza: accade a tutti gli adolescenti di questo mondo e dunque non si tedierà oltre il lettore con il resoconto dettagliato dei patemi di una ragazzina molto magra, molto pallida e discretamente testarda.
L'unico evento degno di rilievo fu l'arrivo, nell'appartamento di città della famiglia M., della gatta Atena. Isa la trovò - abbandonata e agguerrita esploratrice delle aiuole con l'erba più alta - quando aveva appena due mesi. Il suo carattere si rivelò bellicoso quanto il nome che le era stato affibiato. Per undici anni frantumò porcellane e soprammobili, strappò tende e tappezzeria, rovesciò pentole e vasi, graffiò e morse le mani amorevoli che la accarezzavano e la rimpinzavano. Fu bizzosa, umorale e amatissima. Una gattona tricolore che raggiunse il peso considerevole di sette chilogrammi e morì dopo una breve malattia, che le paralizzò le zampe posteriori. Se ne andò con dignità, senza miagolii strazianti, riuscendo a dimostrare - pur senza indulgere in eccessive moine - a Isa e alla sua famiglia quanto li avesse amati, nonostante tutti i loro difetti.
Il primo fidanzato ufficiale di Isa, D., nutriva verso i gatti una vera e propria fobia; ne temeva l'imprevedibilità e la prontezza dei riflessi, che potevano trasformarli da languidi compagni a temebili avversari nel giro di pochi secondi.
Atena intuì la sua paura e, per quattro anni (tanto durò il fidanzamento di D. con Isa), la sfruttò a proprio vantaggio, con crudele malignità.
«Sei una gatta terribile» affermava Isa con orgoglio, osservandola mentre, seduta sul divano accanto a un irrigidito D., ronfava sonoramente.
D., tuttavia, era una brava persona e Atena finì per onorarlo della sua vicinanza nei momenti meno opportuni: si faceva trovare appoggiata alle sue gambe quando D. si svegliava dalla penichella sul letto di Isa oppure lo bloccava in una stanza, appoggiandogli una candida zampetta sul braccio nel momento in cui il povero ragazzo tentava di raggiungere l'uscita. Una sera, D. fu costretto a battere un pugno contro il muro per chiedere aiuto, dato che Atena, seduta sulla mensola del termosifone del bagno, gli aveva afferrato la manica del maglione con le unghie e non dava segno di voler mollare la presa.
La perfidia che Atena riservava a D. era in fondo bonaria e affettuosa. Quanto meno, rivelava un certo interesse della gatta verso il compagno di Isa.
Diverso fu invece l'atteggiamento di Atena e di Mickey verso Paolino, il secondo fidanzato di Isa. La loro relazione durò solo quattro mesi e, in quel lasso di tempo, si conquistò un paio di graffi profondi da parte della gatta e un ringhio stentoreo da parte del cane.
Paolino era basso e grassottello: l'esatto contrario di D., come spesso accade in questi casi. Aveva un debole per gli alcolici e le frasi melodrammatiche. Riempiva le tasche di Isa di bigliettini in cui la rassicurava sulla solidità del suo amore. Alla ragazza, quelle lettere scritte in brutta grafia, con esiguo utilizzo della punteggiatura, mettevano ansia.
Paolino si vantava di essere un appassionato di Pirandello e Dostoevskij. Eppure, fu proprio la sua millantata passione per la letteratura, a giocargli un brutto tiro.
Isa capì infatti di non esserne innamorata durante una discussione su Il nome della rosa di Umberto Eco: Paolino era convinto che il Manuscript de Dom Adson de Melk fosse realmente esistito e recuperato dall'autore.
«Non posso stare con un uomo che non sa cosa sia una "finzione letteraria"» confidò afflitta alla "Zia" un mercoledì pomeriggio, sorseggiando cioccolata calda. «E tuttavia... oh, mi sento così spocchiosa!»
La "Zia" scosse la zazzera di capelli neri con una smorfia: «Non puoi andare a letto con qualcuno solo per sentirti in pace con la tua coscienza sinistroide...».
«E comunque c'è dell'altro» replicò lei senza raccogliere la frecciata politica. «Beve troppo.»
La "Zia" tacque, incoraggiandola a proseguire.
«La notte di Capodanno era ubriaco fradico. Gli dissi che disapprovavo il suo comportamento e lui nemmeno rispose. Stava seduto al tavolo di quel maledetto locale e mi fissava con occhi velati, limitandosi di tanto in tanto ad emettere piccoli effemminati singhiozzi. Che rabbia!»
«E poi?»
«L'ho trascinato in bagno. Ho spalancato le finestre e gli ho fatto lavare il viso con acqua fredda. Ho cercato di parlargli, ma... Continuava a chiedermi scusa e io mi innervosivo: volevo cercare di capire per quale motivo si fosse ridotto in quello stato e i suoi ripetuti "Perdonami, amore" non mi erano di nessun aiuto.»
«Alcuni uomini trovano divertente ubriacarsi in quel modo la notte di Capodanno...»
«Lo aveva già fatto...»
La "Zia" si limitò a sollevare un sopracciglio.
«Una domenica pomeriggio, dopo un pranzo con gli amici. E' venuto a prendermi - e aveva la voce impastata. Rideva per nulla e il suo alito...» Isa sventolò la mano in un gesto inequivocabile.
«Com'è andata a finire?»
«Quella domenica? Mi sono fatta riportare a casa...»
«No, no: la notte di Capodanno, intendo.»
«Si è inginocchiato davanti a me, sul pavimento lercio del gabinetto.»
La "Zia" iniziò a ridacchiare.
«Non ridere! Non c'è niente da ridere... Mi ha preso la mano, chiedendomi ancora una volta perdono. Un gesto melodrammatico e cretino, non trovi? Ero così infastidita! Ho aperto la porta e ho fatto per andarmene, ma lui l'ha richiusa con un colpo secco, violento. Mi sono voltata e l'ho guardato in silenzio, furiosa. Immagina, si è scusato altre mille volte; ma il suo gesto... cielo, mi sono vista come la protagonista di quel libro di Doyle... [1]»
«E non hai torto: lascialo perdere, dammi retta. E non raccontare a M. la storia del bagno e del colpo alla porta, se non vuoi che finisca male.»
«Secondo te ho sbagliato a lasciarlo?»
«No: l'abuso di alcol peggiora le prestazioni sessuali.»
Con la morte di Atena, la situazione si fece ancora più critica. Isa e Mickey rimasero soli, indeboliti dal dolore per la perdita della loro battagliera compagna.
Il Professore e sua moglie non comprendevano l'apatia della figlia; non riuscendo a comunicare con lei verbalmente (giacché Isa era dotata di un carattere spinoso, incline al pianto così come a fragorosi scoppi d'ira), le scrivevano lettere che la facevano sentire in colpa, sciocca ed egoista.
«Mio padre dice che vivo male perché non partecipo alla vita della mia famiglia e non condivido né con lui né con mia madre ciò che mi sta succedendo» raccontò Isa alla "Zia" una sera, mentre sullo schermo del televisore scorrevano i titoli de La signora della porta accanto.
«Com'è giusto che sia: è di cattivo gusto rivelare i propri pensieri ai genitori.»
Ma Isa non possedeva il cinismo della "Zia" e spesso si trovava a combattere contro le lacrime e un debilitante senso di impotenza.
La storia con Emiliano per quanto sincera, profonda e, per un certo periodo, appagante, finì nel silenzio.
A lui successe A., che la "Zia" e M. battezzarono subito "l'Ipocrita" - vago eppure evidente omaggio a Dostoevskij...
♦ Continua... ♦
[1] Il riferimento è a R. Doyle, La donna che sbatteva nelle porte.
Il Professore e sua moglie erano appassionati amanti degli animali, ma non avevano alcuna dimestichezza coi gatti.
Il Professore nutriva verso di loro una naturale diffidenza e la signora li teneva a debita distanza, forse segnata dalla triste storia del gatto che possedeva da bambina, scomparso in circostanze misteriose – con ogni probabilità cucinato dal vicino di casa che non disprezzava il sapore delle carni feline.
I primi gatti ad arrivare nella famiglia di Isa (sono sempre i gatti a scegliere gli esseri umani; non accade mai il contrario, per quanto agli uomini piaccia convincersene) furono Micia e suo figlio, Chicco. Nomi non particolarmente originali, ma non si può pretendere riferimenti letterari, storici o filosofici, da una bambina di otto anni.
Chicco e Micia, in verità, erano i denutriti gatti del signor Federico; nel giro di un autunno e un'estate divennero i pasciuti e affezionati famigli di Isa che, a quell'epoca, trascorreva nella piccola casa in collina i mesi più caldi dell'anno e tutti i fine settimana.
Con la vendita della casa (avvenimento che ancora oggi non cessa di suscitare in Isa grande commozione), dei due gatti non si seppe più nulla: il Professore e la moglie non avevano intenzione di rendere il furto definitivo, portandoli in città; e Isa non potè fare altro che ricordarli con affetto negli anni a venire, sentendosi in colpa per averli abbandonati nelle mani del parsimonioso signor Federico.
Gli anni dell'adolescenza furono segnati per Isa da grande sofferenza: accade a tutti gli adolescenti di questo mondo e dunque non si tedierà oltre il lettore con il resoconto dettagliato dei patemi di una ragazzina molto magra, molto pallida e discretamente testarda.
L'unico evento degno di rilievo fu l'arrivo, nell'appartamento di città della famiglia M., della gatta Atena. Isa la trovò - abbandonata e agguerrita esploratrice delle aiuole con l'erba più alta - quando aveva appena due mesi. Il suo carattere si rivelò bellicoso quanto il nome che le era stato affibiato. Per undici anni frantumò porcellane e soprammobili, strappò tende e tappezzeria, rovesciò pentole e vasi, graffiò e morse le mani amorevoli che la accarezzavano e la rimpinzavano. Fu bizzosa, umorale e amatissima. Una gattona tricolore che raggiunse il peso considerevole di sette chilogrammi e morì dopo una breve malattia, che le paralizzò le zampe posteriori. Se ne andò con dignità, senza miagolii strazianti, riuscendo a dimostrare - pur senza indulgere in eccessive moine - a Isa e alla sua famiglia quanto li avesse amati, nonostante tutti i loro difetti.
Il primo fidanzato ufficiale di Isa, D., nutriva verso i gatti una vera e propria fobia; ne temeva l'imprevedibilità e la prontezza dei riflessi, che potevano trasformarli da languidi compagni a temebili avversari nel giro di pochi secondi.
Atena intuì la sua paura e, per quattro anni (tanto durò il fidanzamento di D. con Isa), la sfruttò a proprio vantaggio, con crudele malignità.
«Sei una gatta terribile» affermava Isa con orgoglio, osservandola mentre, seduta sul divano accanto a un irrigidito D., ronfava sonoramente.
D., tuttavia, era una brava persona e Atena finì per onorarlo della sua vicinanza nei momenti meno opportuni: si faceva trovare appoggiata alle sue gambe quando D. si svegliava dalla penichella sul letto di Isa oppure lo bloccava in una stanza, appoggiandogli una candida zampetta sul braccio nel momento in cui il povero ragazzo tentava di raggiungere l'uscita. Una sera, D. fu costretto a battere un pugno contro il muro per chiedere aiuto, dato che Atena, seduta sulla mensola del termosifone del bagno, gli aveva afferrato la manica del maglione con le unghie e non dava segno di voler mollare la presa.
La perfidia che Atena riservava a D. era in fondo bonaria e affettuosa. Quanto meno, rivelava un certo interesse della gatta verso il compagno di Isa.
Diverso fu invece l'atteggiamento di Atena e di Mickey verso Paolino, il secondo fidanzato di Isa. La loro relazione durò solo quattro mesi e, in quel lasso di tempo, si conquistò un paio di graffi profondi da parte della gatta e un ringhio stentoreo da parte del cane.
Paolino era basso e grassottello: l'esatto contrario di D., come spesso accade in questi casi. Aveva un debole per gli alcolici e le frasi melodrammatiche. Riempiva le tasche di Isa di bigliettini in cui la rassicurava sulla solidità del suo amore. Alla ragazza, quelle lettere scritte in brutta grafia, con esiguo utilizzo della punteggiatura, mettevano ansia.
Paolino si vantava di essere un appassionato di Pirandello e Dostoevskij. Eppure, fu proprio la sua millantata passione per la letteratura, a giocargli un brutto tiro.
Isa capì infatti di non esserne innamorata durante una discussione su Il nome della rosa di Umberto Eco: Paolino era convinto che il Manuscript de Dom Adson de Melk fosse realmente esistito e recuperato dall'autore.
«Non posso stare con un uomo che non sa cosa sia una "finzione letteraria"» confidò afflitta alla "Zia" un mercoledì pomeriggio, sorseggiando cioccolata calda. «E tuttavia... oh, mi sento così spocchiosa!»
La "Zia" scosse la zazzera di capelli neri con una smorfia: «Non puoi andare a letto con qualcuno solo per sentirti in pace con la tua coscienza sinistroide...».
«E comunque c'è dell'altro» replicò lei senza raccogliere la frecciata politica. «Beve troppo.»
La "Zia" tacque, incoraggiandola a proseguire.
«La notte di Capodanno era ubriaco fradico. Gli dissi che disapprovavo il suo comportamento e lui nemmeno rispose. Stava seduto al tavolo di quel maledetto locale e mi fissava con occhi velati, limitandosi di tanto in tanto ad emettere piccoli effemminati singhiozzi. Che rabbia!»
«E poi?»
«L'ho trascinato in bagno. Ho spalancato le finestre e gli ho fatto lavare il viso con acqua fredda. Ho cercato di parlargli, ma... Continuava a chiedermi scusa e io mi innervosivo: volevo cercare di capire per quale motivo si fosse ridotto in quello stato e i suoi ripetuti "Perdonami, amore" non mi erano di nessun aiuto.»
«Alcuni uomini trovano divertente ubriacarsi in quel modo la notte di Capodanno...»
«Lo aveva già fatto...»
La "Zia" si limitò a sollevare un sopracciglio.
«Una domenica pomeriggio, dopo un pranzo con gli amici. E' venuto a prendermi - e aveva la voce impastata. Rideva per nulla e il suo alito...» Isa sventolò la mano in un gesto inequivocabile.
«Com'è andata a finire?»
«Quella domenica? Mi sono fatta riportare a casa...»
«No, no: la notte di Capodanno, intendo.»
«Si è inginocchiato davanti a me, sul pavimento lercio del gabinetto.»
La "Zia" iniziò a ridacchiare.
«Non ridere! Non c'è niente da ridere... Mi ha preso la mano, chiedendomi ancora una volta perdono. Un gesto melodrammatico e cretino, non trovi? Ero così infastidita! Ho aperto la porta e ho fatto per andarmene, ma lui l'ha richiusa con un colpo secco, violento. Mi sono voltata e l'ho guardato in silenzio, furiosa. Immagina, si è scusato altre mille volte; ma il suo gesto... cielo, mi sono vista come la protagonista di quel libro di Doyle... [1]»
«E non hai torto: lascialo perdere, dammi retta. E non raccontare a M. la storia del bagno e del colpo alla porta, se non vuoi che finisca male.»
«Secondo te ho sbagliato a lasciarlo?»
«No: l'abuso di alcol peggiora le prestazioni sessuali.»
Con la morte di Atena, la situazione si fece ancora più critica. Isa e Mickey rimasero soli, indeboliti dal dolore per la perdita della loro battagliera compagna.
Il Professore e sua moglie non comprendevano l'apatia della figlia; non riuscendo a comunicare con lei verbalmente (giacché Isa era dotata di un carattere spinoso, incline al pianto così come a fragorosi scoppi d'ira), le scrivevano lettere che la facevano sentire in colpa, sciocca ed egoista.
«Mio padre dice che vivo male perché non partecipo alla vita della mia famiglia e non condivido né con lui né con mia madre ciò che mi sta succedendo» raccontò Isa alla "Zia" una sera, mentre sullo schermo del televisore scorrevano i titoli de La signora della porta accanto.
«Com'è giusto che sia: è di cattivo gusto rivelare i propri pensieri ai genitori.»
Ma Isa non possedeva il cinismo della "Zia" e spesso si trovava a combattere contro le lacrime e un debilitante senso di impotenza.
La storia con Emiliano per quanto sincera, profonda e, per un certo periodo, appagante, finì nel silenzio.
A lui successe A., che la "Zia" e M. battezzarono subito "l'Ipocrita" - vago eppure evidente omaggio a Dostoevskij...
♦ Continua... ♦
[1] Il riferimento è a R. Doyle, La donna che sbatteva nelle porte.
giovedì 14 ottobre 2010
"Lei non vuole che scriva..."
Oggi ho rivisto, in unica giornata, alcuni dei miei migliori amici. Tutti i miei migliori amici, potrei dire, ad eccezione della Zia e di M.: ma il sentimento che mi lega a loro due, si sa, possiede la sfumatura grigia e malinconica determinata dalla lontananza.
Pranzo con Cathy, a discutere di borse, libri, frasi celebri e patemi. (Il Cappellaio è silenzioso; e il lato positivo del mio periodo di disoccupazione è che posso andare a pranzo fuori senza essere costretta a tenere d'occhio l'orologio.)
Nel pomeriggio, una capatina a sistemarmi i capelli, da Marina. Anche se mi sono trasferita dalla città al paese, lei rimane sempre la mia parrucchiera di fiducia. Perché li capisce, i miei capelli neri, lisci e così vaporosi.
(Era una frase di Laura. Laura che è sempre stata tanto bella e afflitta. Disse un giorno, seduta sul divano di mia madre: «Ho trovato finalmente una parrucchiera che mi capisce i capelli!». Pronunciò quelle parole con gioia reale. Perché i capelli devono essere compresi e amati: sono legacci forti, potenti, come ci insegna Medusa...)
E poi rivedere Luna, senza preavviso, dopo settimane. Parlare come non si faceva da tempo. Discutere di tutte quelle cose che, a lungo andare, fanno dolere la gola. Pensare a cosa ci riscalderà il prossimo inverno... Se mai qualcosa potrà riscaldarci. Ho paura dell'inverno e...
Emma (la gatta, la gatta! Della Bovary, oggi, mi sono dimenticata...) passeggia sulla tastiera con fastidiosa insistenza. L'ho già allontanata più e più volte. L'ho spinta via, con malagrazia. «Emma, piantala. La smetti? Lasciami scrivere!»
Niente da fare. Si è sistemata, seduta, fra me e la tastiera del computer, ronfando sonoramente e fissandomi con quei suoi occhi verdi elegantemente truccati (almeno così pare!) appena dischiusi.
E' evidente che non vuole che vada oltre - coi pensieri e con le parole. Non è necessario evocare anzi tempo la tristezza dell'inverno, il dolore insito in ogni lontananza, il timore (autunnale, appena sussurrato, come accade con l'ansito dei morti) di perdere le persone amate...
"Non ha senso", mi dice Emma.
E allora basta. Vado nel letto, a leggere Dracula di Bram Stoker. Vivide letture per sogni avventurosi. Niente altro.
Pranzo con Cathy, a discutere di borse, libri, frasi celebri e patemi. (Il Cappellaio è silenzioso; e il lato positivo del mio periodo di disoccupazione è che posso andare a pranzo fuori senza essere costretta a tenere d'occhio l'orologio.)
Nel pomeriggio, una capatina a sistemarmi i capelli, da Marina. Anche se mi sono trasferita dalla città al paese, lei rimane sempre la mia parrucchiera di fiducia. Perché li capisce, i miei capelli neri, lisci e così vaporosi.
(Era una frase di Laura. Laura che è sempre stata tanto bella e afflitta. Disse un giorno, seduta sul divano di mia madre: «Ho trovato finalmente una parrucchiera che mi capisce i capelli!». Pronunciò quelle parole con gioia reale. Perché i capelli devono essere compresi e amati: sono legacci forti, potenti, come ci insegna Medusa...)
E poi rivedere Luna, senza preavviso, dopo settimane. Parlare come non si faceva da tempo. Discutere di tutte quelle cose che, a lungo andare, fanno dolere la gola. Pensare a cosa ci riscalderà il prossimo inverno... Se mai qualcosa potrà riscaldarci. Ho paura dell'inverno e...
Emma (la gatta, la gatta! Della Bovary, oggi, mi sono dimenticata...) passeggia sulla tastiera con fastidiosa insistenza. L'ho già allontanata più e più volte. L'ho spinta via, con malagrazia. «Emma, piantala. La smetti? Lasciami scrivere!»
Niente da fare. Si è sistemata, seduta, fra me e la tastiera del computer, ronfando sonoramente e fissandomi con quei suoi occhi verdi elegantemente truccati (almeno così pare!) appena dischiusi.
E' evidente che non vuole che vada oltre - coi pensieri e con le parole. Non è necessario evocare anzi tempo la tristezza dell'inverno, il dolore insito in ogni lontananza, il timore (autunnale, appena sussurrato, come accade con l'ansito dei morti) di perdere le persone amate...
"Non ha senso", mi dice Emma.
E allora basta. Vado nel letto, a leggere Dracula di Bram Stoker. Vivide letture per sogni avventurosi. Niente altro.
mercoledì 13 ottobre 2010
La melagrana e Madame Bovary
Il sapore asprigno della melagrana la riportò all'ansietà e al malumore soffuso di quegli ultimi giorni di settembre.
L'incertezza riguardo alla buona riuscita della torta non faceva che aumentare il suo senso di precarietà: i dolci sono per natura bizzosi e imprevedibili.
Ruppe le uova pensando a Madame Bovary: il libro era abbandonato sul divano, il segno tra la pagina 260 e la 261. Riguardo alla bizzarra associazione mentale, fu forse suggerita dalla potenza simbolica del frutto che aveva appena finito di spremere. Frutto dei morti e delle donne, si sa.
Quanto alla sfortunata moglie di Charles Bovary (pensò Isa iniziando a rompere le uova, per mescolarle al resto dell'impasto), era chiaro che soffrisse di una grave forma di mancanza: d'amore, di conoscenza dell'amore (in seguito al matrimonio frustrante con l'uomo sbagliato) e di contatto con la vita reale.
«Emma vive e non vive» sentenziò Isa mescolando gli ingredienti col solito cucchiaio di legno. Cagliostro, seduto educatamente sul davanzale della finestra, chiuse pigramente gli occhi e li riaprì, come chi in merito la sapesse lunga.
Non avendo saputo adattare se stessa alla propria vita né viceversa, Emma era lontana da tutto e da tutti, protetta da una sorta di campana di vetro contro cui, accecata, andava a cozzare simile a una falena impazzita. Non c'è spazio per la moralità, nell'ambito del suo frenetico movimento emotivo.
«Per questo difficilmente si può considerare la Bovary un personaggio negativo nel senso convenzionale del termine.»
Isa (che, dopo la presa di coscienza dell'incostanza dei suoi sentimenti, rifletteva spesso sul tema del tradimento) non riusciva a giudicare severamente la povera Emma. In fin dei conti, attraverso le relazioni extraconiugali ("Il sesso!" si corresse mentalmente, versando il succo di melagrana nella terrina: per quale motivo si era sempre reticenti a parlare di sesso in ambito letterario?), non faceva altro che tentare di affermarsi: non socialmente, ma dal punto di vista esistenziale. Per esistere, Emma doveva illudersi di riuscire ad amare ed essere amata. E quale dimostrazione, quale pegno d'amore può essere più importante dell'atto sessuale?
Molte donne si concedono (a uomini sbagliati, egoisti o che - semplicemente - non possiedono le loro stesse inclinazioni e non condividono i loro desideri) per esistere; per affermare l'interezza di un io che va disgregandosi.
Con un coltello robusto, Isa tagliò a metà la grossa mela renetta e cominciò a sbucciarla. Ecco: la divisione. "Si tradisce per reagire a un'assenza insopportabile, dell'oggetto amato oppure di se stessi" pensò la donna, sfregandosi una guancia con le mani ancora sporche di farina.
Mancare a se stessi è l'accidente peggiore che possa capitare.
«E il tradimento» disse Isa di nuovo a voce alta, puntando il coltello verso Cagliostro, che la fissò senza stupore «è una fuga pericolosa, che taglia i ponti col passato!»
Non poteva esistere regressione né ritorno dopo il tradimento, lo sospettava.
Ora, Emma si era allontanata (da se stessa, dalla vita reale, concreta e quotidiana, più che da Charles) poiché possedeva la disperata volontà di esistere e, per realizzarla, non aveva trovato altro mezzo che l'amore. Ma la mancanza di vero amore ("Confondere l'amore sessuale con la dolcezza di un sentimento sincero può essere oltremodo pericoloso" rifletté Isa versando l'impasto nella tortiera imburrata) l'aveva spinta lungo una strada pericolosa, dalla quale non era stato possibile tornare indietro.
L'unica soluzione, a quel punto, era il suicidio.
Isa prese a disporre le fette di mela con ordine sulla torta, sistemandole in due cerchi concentrici.
Ordine. Cosmo.
«Sai, esistono due tipi di morte...» Il gatto nero aprì completamente gli occhi che fino a quel momento aveva tenuto socchiusi, destato da un improvviso interesse. «La morte che riporta un certo ordine, perché necessaria, naturale, giusta. E quella orribile, perché ci sprofonda nell'oscurità, nell'indeterminatezza, senza pace.»
La morte di Emma era una morte caotica, definitiva, distruttrice di qualsiasi affetto o vincolo.
La morte più orribile che si potrebbe immaginare. Com'era possibile, dunque, rimproverare una donna che era andata incontro a un così doloroso destino?
Infornò la torta, si lavò le mani, le asciugò nel grembiule (un vizio che aveva ereditato dal Professore) e corse a prendere il libro, ormai lontana dalla cucina e dalle incombenze domestiche.
Cagliostro la seguì. Clizia, sul divano, si stiracchiò pigramente, disponenendosi all'ascolto.
Era tutto lì; in quell' "Emma non era più".
«Eccolo, il Caos!» Isa indicò il punto sulla pagina. Clizia le annusò il dito.
La giovane donna sorrise. Poi controllò l'orologio e calcolò che avrebbe dovuto estrarre la torta dal forno fra circa un'ora...
(Nella foto in alto: Jennifer Jones nel film Madame Bovary di Vincent Minnelli, 1949.)
L'incertezza riguardo alla buona riuscita della torta non faceva che aumentare il suo senso di precarietà: i dolci sono per natura bizzosi e imprevedibili.
Ruppe le uova pensando a Madame Bovary: il libro era abbandonato sul divano, il segno tra la pagina 260 e la 261. Riguardo alla bizzarra associazione mentale, fu forse suggerita dalla potenza simbolica del frutto che aveva appena finito di spremere. Frutto dei morti e delle donne, si sa.
Quanto alla sfortunata moglie di Charles Bovary (pensò Isa iniziando a rompere le uova, per mescolarle al resto dell'impasto), era chiaro che soffrisse di una grave forma di mancanza: d'amore, di conoscenza dell'amore (in seguito al matrimonio frustrante con l'uomo sbagliato) e di contatto con la vita reale.
«Emma vive e non vive» sentenziò Isa mescolando gli ingredienti col solito cucchiaio di legno. Cagliostro, seduto educatamente sul davanzale della finestra, chiuse pigramente gli occhi e li riaprì, come chi in merito la sapesse lunga.
Non avendo saputo adattare se stessa alla propria vita né viceversa, Emma era lontana da tutto e da tutti, protetta da una sorta di campana di vetro contro cui, accecata, andava a cozzare simile a una falena impazzita. Non c'è spazio per la moralità, nell'ambito del suo frenetico movimento emotivo.
«Per questo difficilmente si può considerare la Bovary un personaggio negativo nel senso convenzionale del termine.»
Isa (che, dopo la presa di coscienza dell'incostanza dei suoi sentimenti, rifletteva spesso sul tema del tradimento) non riusciva a giudicare severamente la povera Emma. In fin dei conti, attraverso le relazioni extraconiugali ("Il sesso!" si corresse mentalmente, versando il succo di melagrana nella terrina: per quale motivo si era sempre reticenti a parlare di sesso in ambito letterario?), non faceva altro che tentare di affermarsi: non socialmente, ma dal punto di vista esistenziale. Per esistere, Emma doveva illudersi di riuscire ad amare ed essere amata. E quale dimostrazione, quale pegno d'amore può essere più importante dell'atto sessuale?
Molte donne si concedono (a uomini sbagliati, egoisti o che - semplicemente - non possiedono le loro stesse inclinazioni e non condividono i loro desideri) per esistere; per affermare l'interezza di un io che va disgregandosi.
Con un coltello robusto, Isa tagliò a metà la grossa mela renetta e cominciò a sbucciarla. Ecco: la divisione. "Si tradisce per reagire a un'assenza insopportabile, dell'oggetto amato oppure di se stessi" pensò la donna, sfregandosi una guancia con le mani ancora sporche di farina.
Mancare a se stessi è l'accidente peggiore che possa capitare.
«E il tradimento» disse Isa di nuovo a voce alta, puntando il coltello verso Cagliostro, che la fissò senza stupore «è una fuga pericolosa, che taglia i ponti col passato!»
Non poteva esistere regressione né ritorno dopo il tradimento, lo sospettava.
Ora, Emma si era allontanata (da se stessa, dalla vita reale, concreta e quotidiana, più che da Charles) poiché possedeva la disperata volontà di esistere e, per realizzarla, non aveva trovato altro mezzo che l'amore. Ma la mancanza di vero amore ("Confondere l'amore sessuale con la dolcezza di un sentimento sincero può essere oltremodo pericoloso" rifletté Isa versando l'impasto nella tortiera imburrata) l'aveva spinta lungo una strada pericolosa, dalla quale non era stato possibile tornare indietro.
L'unica soluzione, a quel punto, era il suicidio.
Isa prese a disporre le fette di mela con ordine sulla torta, sistemandole in due cerchi concentrici.
Ordine. Cosmo.
«Sai, esistono due tipi di morte...» Il gatto nero aprì completamente gli occhi che fino a quel momento aveva tenuto socchiusi, destato da un improvviso interesse. «La morte che riporta un certo ordine, perché necessaria, naturale, giusta. E quella orribile, perché ci sprofonda nell'oscurità, nell'indeterminatezza, senza pace.»
La morte di Emma era una morte caotica, definitiva, distruttrice di qualsiasi affetto o vincolo.
La morte più orribile che si potrebbe immaginare. Com'era possibile, dunque, rimproverare una donna che era andata incontro a un così doloroso destino?
Infornò la torta, si lavò le mani, le asciugò nel grembiule (un vizio che aveva ereditato dal Professore) e corse a prendere il libro, ormai lontana dalla cucina e dalle incombenze domestiche.
Cagliostro la seguì. Clizia, sul divano, si stiracchiò pigramente, disponenendosi all'ascolto.
Emma si rialzò come un cadavere che venga galvanizzato, con i capelli sciolti, la pupilla fissa e vacua. "Per ammucchiar di buona lena / tutte le spighe ormai falciate, / la mia Nanette curva la schiena / verso quel solco che ce le ha date."
«Il Cieco!» gridò.
E si mise a ridere d'un riso atroce, frenetico, disperato, convinta di vedere la faccia repellente di quel disgraziato ergersi nelle tenebre eterne come uno spauracchio. [...] Una convulsione l'abbattè sul materasso. Tutti s'avvicinarono. Emma non era più.
Era tutto lì; in quell' "Emma non era più".
«Eccolo, il Caos!» Isa indicò il punto sulla pagina. Clizia le annusò il dito.
La giovane donna sorrise. Poi controllò l'orologio e calcolò che avrebbe dovuto estrarre la torta dal forno fra circa un'ora...
(Nella foto in alto: Jennifer Jones nel film Madame Bovary di Vincent Minnelli, 1949.)
domenica 10 ottobre 2010
Dell'ossessione amorosa
(Dove si pongono le basi di tutti gli scritti raccolti nel presente quaderno...)
Qualcuno ha scritto che il sesso non sarebbe altro che «l'anestetico che rende sopportabile la carne di un altro essere». Il che ridurrebbe l'amore fisico a una necessità imprescindibile: il desiderio, che né uomini né donne possono soffocare, di unirsi a qualcun altro per trovare pace e appagamento.
Questa smania spiegherebbe altresì l'ossessione del possesso quando, dal meccanico atto sessuale, si passa alla volontà testarda di apporre un marchio sull'anima dell'oggetto amato, sui suoi pensieri, sugli atti da lei o da lui compiuti in assenza dell'amante.
L'amore passionale è la sublimazione dell'egoismo, il tentativo - il più delle volte destinato al fallimento - di colmare un'assenza perpetua con la ripetizione compulsiva del proprio sentimento.
Il verbo "amare" viene declinato attraverso ogni sfumatura concepibile, passa attraverso la gioia sublime dell'unione e la disperazione scaturita dall'incomprensione; finché scrivere non diviene inevitabile. Attraverso la ripetizione delle parole che, come un incantesimo, irretiscono la mente di amato e amante, amore e frenesia si acuiscono e si rafforzano, assurgendo allo stato di unico cosmo - caotico ad occhi estranei, perfettamente coerente per gli innamorati testardi.
Qualcuno ha scritto che il sesso non sarebbe altro che «l'anestetico che rende sopportabile la carne di un altro essere». Il che ridurrebbe l'amore fisico a una necessità imprescindibile: il desiderio, che né uomini né donne possono soffocare, di unirsi a qualcun altro per trovare pace e appagamento.
Questa smania spiegherebbe altresì l'ossessione del possesso quando, dal meccanico atto sessuale, si passa alla volontà testarda di apporre un marchio sull'anima dell'oggetto amato, sui suoi pensieri, sugli atti da lei o da lui compiuti in assenza dell'amante.
L'amore passionale è la sublimazione dell'egoismo, il tentativo - il più delle volte destinato al fallimento - di colmare un'assenza perpetua con la ripetizione compulsiva del proprio sentimento.
Il verbo "amare" viene declinato attraverso ogni sfumatura concepibile, passa attraverso la gioia sublime dell'unione e la disperazione scaturita dall'incomprensione; finché scrivere non diviene inevitabile. Attraverso la ripetizione delle parole che, come un incantesimo, irretiscono la mente di amato e amante, amore e frenesia si acuiscono e si rafforzano, assurgendo allo stato di unico cosmo - caotico ad occhi estranei, perfettamente coerente per gli innamorati testardi.
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