sabato 3 dicembre 2011

La storia della gatta contesa: ultimo atto

Ci sono occasioni in cui si ha voglia di pronunciare a voce alta le parole del dolore - chiedendo a tutti di essere partecipi del destino cui stiamo andando incontro.
Quando a Mickey fu diagnosticato il melanoma che in breve tempo lo portò alla morte, Isa scrisse una lettera a tutti gli amici più cari, chiedendo loro di accompagnare il suo "piccolo cagnolino rosso" lungo l'ultimo tratto di strada.
Per Clizia, invece, fece la scelta opposta. Forse furono alcuni "segnali" inequivocabili, a spingerla al silenzio - oppure la consapevolezza che la sua bellissima gattona grigia (sempre così riservata) avrebbe preferito una dignitosa solitudine, alla (seppur educata) presenza di numerosi estranei.
Non ci furono "ultime visite", per Clizia. Nessuno, all'infuori del Professore e di sua moglie, di Cathy, Nyc e M. seppero della sua malattia.
Se ne andò senza clamore, discreta com'era vissuta, la mattina del 3 dicembre 2011, con la luna che ancora una volta transitava nel segno dei Pesci.
Isa e C. la seppellirono nel giardino della nuova casa, sotto la pianta del fico, dove già avevano sistemato Mickey, durante l'estate. Piansero molto, increduli di fronte alla realtà: la loro "principessa", la veggente cieca, non li avrebbe accompagnati oltre. Contrariamente a quanto avevano creduto, non avrebbe traslocato insieme al resto della famiglia: i parapetti lungo la scala (a cui Isa aveva pensato di ricorrere per evitare a Clizia brutte cadute) non sarebbero stati necessari.
L'unica consolazione era rappresentata dalla tenue (ma innegabile) consapevolezza che anche l'ultima porta si fosse chiusa e che quel ciclo orribile, iniziato nel mese di giugno con la malattia di Mickey si fosse infine concluso, portando nuovi frutti e una discreta dose di speranza.
«C'è un destino, credo, per ciascuno di noi. Porte che si aprono e che si chiudono. Un tempo per ogni cosa» scrisse Isa in una lettera a Cinzia - e ne era profondamente convinta.
Giunta a casa, dopo la sepoltura della gattina, guardò Cagliostro nei suoi saggi occhi color giada ed ebbe la sensazione di non essersi sbagliata...

mercoledì 23 novembre 2011

I gatti di Théophile-Alexandre Steinlen




Théophile-Alexandre Steinlen nasce il 10 novembre del 1859 a Losanna, in Svizzera, da una famiglia di artisti: sia il padre sia il nonno amavano la pittura, passione che trasmisero al giovane Théophile. Quest'ultimo, nel 1879 va a lavorare in Germania, presso il laboratorio dello zio, dove si stampavano tessuti: anche in questo campo, ha modo di far fruttare la sua passione per il disegno, che si rivelerà molto utile anche in ambito artigianale.
Nel 1881 si trasferisce a Parigi, nel quartiere di Montmartre. In questo periodo entra in contatto gli artisti e i bohèmien della capitale francese. Conosce, fra gli altri, Toulouse Lautrec ed Emile Zola, al cui romanzo L'assommoir dedicò uno dei suoi quadri. Diviene altresì assiduo frequentatore del caffé artistico e letterario Le chat noir (di proprietà di Rodolphe Salis), che ebbe la sua prima sede in boulevard de Rochechouart. Ne realizza addirittura la celebre insegna, avendo così occasione (data l'intitolazione del locale) di dimostrare - oltre al proprio talento artistico - anche la sua grande passione per i gatti.
Steinlen ama infatti profondamente questi misteriosi animali - al punto che la sua casa in rue Caulaincourt diventa in breve tempo il punto di ritrovo di tutti i gatti di Montmartre. L'abitazione viene non a caso soprannominata "le coin des chats", "l'angolo dei gatti".


Nell'opera di Steinlen, i ritratti di gatti si mescolano armoniosamente con altri soggetti, che raffigurano quell'ambiente bohème e popolare che l'illustratore aveva scelto per sé e per la propria opera: accanto ai bene amati piccoli felini (che Steinlen disegnava nella comodità delle loro case oppure per strada, lungo le vie di Montmartre) troviamo soldati, lavoratori, musicisti squattrinati, prostitute, operai e mendicanti. I gatti accompagnano armoniosamente (sebbene sempre con un certo altezzoso distacco) quest'umanità bizzarra e affascinante - essi stessi emblema della joie de vivre, a scapito di qualsiasi miseria.
Emblematico, a tale proposito, è Le chat noir Gaudeamus, dipinto nel 1890 per il locale di Rodolphe Salis, che raffigura un impetuoso gattone nero, impegnato (ad artigli sguainati) a sventolare una banidera rossa, recante la scritta "Gaudeamus". Il riferimento è una canzone goliardica in latino, che recita: «Godiamo ordunque, mentre siamo giovani. Dopo l’allegra gioventù, dopo la scomoda vecchiaia, ci riceverà la terra!». La vita contro la morte, dunque - e la forza vitale (ed enigmatica, affascinante) del gatto quale metafora della forza umana, capace di far fronte ad ogni affanno.

Steinlen muore a Parigi, nel 1923, in seguito ad un attacco cardico.

Le chat noir Gaudeamus, 1890.

mercoledì 16 novembre 2011

Mille e mille candele accese

17 novembre 2011: festa del gatto nero


I gatti neri danno l'impressione di portare sfortuna solo a coloro che, quanto basta insoddisfatti della propria vita, agiscono in modo tale da condurre l'infelicità anche nelle vite altrui.
Per questo genere di individui i gatti (e i gatti neri più di tutti gli altri) nutrono una sorta di naturale disprezzo; li guardano dall'alto in basso, con un ironico sorrisetto mal celato tra le vibrisse, acuendo così, nelle loro "vittime" designate e preferite, l'impressione di essere perseguitate da chissà quale iattura.
In realtà, alcune persone non sono vittime d'altri che di se stesse - e, al contempo, pur di non ammetterlo, farebbero di tutto per mettere a tacere chiunque sappia far risaltare (con sagace impertinenza) il loro sentimento di frustrazione e inadeguatezza.

Isa, nelle serate del 16 e 17 novembre, accese due candele sul davanzale della finestra della cucina: una (come di consueto) era per Mickey; l'altra, per tutti i gatti neri vittime dell'ignoranza, della superstizione e della crudeltà di alcuni biechi esseri umani...


Gattivity: domani una candela ricorderà i gatti più sfortunati
A coda alta: il Libro del Gatto Nero 2011

venerdì 11 novembre 2011

I gatti di Michel Leu

Happy Work for Happy People


 

Le annotazioni sul diario di Isa, a proposito dei gatti di Michael Leu

Colorati, sonnolenti, compagni fedelissimi (e silenziosi, viene da pensare osservandoli) delle donne insieme alle quali vengono ritratti, i gatti di Michael Leu trasmettono una sensazione di pace - protagonisti come sono di un'esistenza condotta all'insegna della lentezza, dell'eleganza e della contemplazione.
Eccoli, dunque, addormentati placidamente fra le braccia delle loro amiche e complici (in campagna, sopra un divano, davanti alla Tour Eiffel...) oppure presenze delicate nel corso di tea time all'aperto (pare che splenda sempre il sole, nelle opere di Leu), apéritif parigini e rêverie al chiaro di luna. A tale proposito non si può non notare l'evidente familiarità dei piccoli felini con l'elemento femminile e lunare, di cui appaiono quale naturale complemento - autentica summa dell'equilibrio proposto da Leu nelle sue tele.
Tutto suscita un senso di benessere, un sorriso, [...] un piacevole istante, una più ampia comprensione di ciò che ci circonda... (Dall'introduzione del sito di Michael Leu.)

martedì 8 novembre 2011

Elegance of mind

Ovvero: dove si cucina una torta al cocco e si fa una breve carrellata dei personaggi secondari.

Parte prima
A essere sincera, non le piaceva. Non voleva rivelarsi affrettata nel criticare ma sospettava che non vi fosse in lei vera eleganza: - disinvoltura, non eleganza. - Era quasi certa che, trattandosi di una giovane donna, di una estranea, di una sposa, vi fosse in lei troppa disinvoltura. La sua figura era piacente; il viso non privo di bellezza; ma né i lineamenti, né l'aspetto, né la voce, né i modi erano eleganti. (1)
Così Emma Woodhouse rifletteva a proposito dell'orribile signora Elton; e Anna Luisa Zazo commentava in nota:
"Eleganza" (elegance) è una parola chiave nel vocabolario di Jane Austen. Non indica, o non indica quasi mai, la ricchezza, nell'accezione ha in espressioni quali a life of elegance; e non indica soltanto la grazia, il buon gusto nel vestito e nei modi; ma, attraverso questa forma esterna di eleganza (nell'abbigliamento e nel portamento), allude a una forma interna di equilibrio, di pienezza, di giustezza, di armonia che rappresenta chiaramente per l'autrice un ideale, e che si esprime con chiarezza, usata tra l'altro in Persuasion, "elegance of mind", "eleganza della mente". La condanna di Emma nei confronti della signora Elton è di conseguenza molto più severa - e di natura più "morale" - di quanto potrebbe apparire. (2)
Se Isa andava andava con la memoria a storie e persone del suo passato, non poteva fare a meno di notare (con una sorta di saggia crudeltà) quanto poco "eleganti" fossero (alla maniera auteniana) alcuni personaggi con cui lei, Cathy e molte altre persone che le erano care avevano intrecciato (per periodi di tempo più o meno lunghi) le loro vite.
Chiuse il libro, scese in cucina e iniziò a preparare la torta al cocco che aveva promesso a C.
Farina integrale, cocco in polvere, latte vegetale, un pizzico di lievito... Cucinare dolci era una questione di equilibrio, di scelte (3) giuste. Mentre Isa impastava, ripensando a Emma,si rendeva conto che non tutti erano in grado di osservare la realtà con disincanto, comportandosi con consapevolezza, riserbo e, appunto, eleganza.
Non era consapevole (né tantomeno elegante!) D., quando si ostinava a intrecciare relazioni sentimentali con donne di dubbia maturità e intelligenza, riducendosi poi a piangere sulle ceneri dei suoi (numerosi) defunti amori.
Dimostrava una stupidità quasi infantile il "Cappellaio Matto", che viveva in un'eterna vacanza, senza preoccuparsi del futuro. (Perché non voleva vederlo, il futuro? Perché perfino il suo presente risultava alquanto povero? - si domandava Isa amalgamando per bene gli ingredienti e infornando la teglia con un po' di burro, affinché si sciogliesse nel tempo desiderato.)
Era indiscreto (4) E., che ogni quindici giorni si diceva innamorato e/o alla ricerca della persona giusta con cui trascorrere il resto della sua vita e poi, puntualmente, cambiava idea, raccontando a chiunque volesse ascoltarlo della sua vita sentimentale e (perché no?) sessuale, sviscerando dettagli con una cordialità da osteria che Isa deprecava sopra ogni cosa.
Non possedeva "elegance of mind" neppure Luna, se intendiamo con quest'espressione "equilibrio, giustezza e armonia": non era certo equilibrato (né gentile!) abbandonare un'amica di lunga data senza spiegazione alcuna, adducendo come unico pretesto la mancanza di tempo libero.
Quanto alle "tre Grazie" (amiche di E., non sembravano nutrire una grande simpatia né per Isa né per Cathy)... erano quanto di meno elegante Isa potesse immaginare - sempre in cerca com'erano di un uomo che fornisse loro uno spunto per essere donne.

Certo, era divertente osservare le mancanze altrui, annotarle con parole sapide sul proprio diario, discuterne con Cathy, la "Zia" e M. Ma ciò non contribuiva a migliorare la situazione: Isa e Cathy continuavano a sentirsi bistrattate, estranee ad un mondo che girava (vorticoso) intorno ai seguenti capisaldi:
• è opportuno (nonché divertente) sbandierare ai quattro venti i particolari più intimi della propria vita interiore, senza badare se questo rappresenti o meno un impoverimento per l'individuo;
• una donna, senza un uomo, non è una donna;
• la solitudine è la peggiore delle sfortune: pur di non restare soli, un uomo e una donna devono fare di tutto per accaparrarsi un compagno - di vita o di letto;
• non occorre avere consapevolezza di sé, per sentirsi appagati.

Isa sospirò mestamente, mentre infornava la torta (trentacinque minuti a 180°: per non sbagliarsi posizionò il timer a forma di gatto che, col suo trillo, terrorizzava Emma). Aver trovato il bandolo della matassa era già importante. Ripeté dentro di sé quella sequenza di tre parole che continuava ad affacciarsi alla sua mente (eleganza, consapevolezza, discrezione), come se si trattasse di una formula magica.
Aveva una bussola, ora; una direzione da seguire. Il resto contava poco - doveva convincersene.

(1) J. Austen, Emma, 1815, trad. it. Emma, Mondadori, Milano 2002, pp. 270-271.
(2) Ivi, p. 494.
(3) Da un punto di vista etimologico, la parola "eleganza" deriva dal latino eligere, che significa (appunto) "scegliere".
(4) Ancora dal dizionario etimologico: «"Discreto", da discernere, cioè "saper formare giudizi secondo la verità».


(Nella foto in alto: Gwyneth Paltrow in Emma di Douglas McGrath, 1996.)


La ricetta della torta al cocco

Ingredienti
250 g di farina integrale
50 g di fecola di patate
140 g di olio di semi di mais
150 g di zucchero di canna
9 g di lievito vanigliato
100 g di cocco a scaglie (in polvere)
200 g di acqua
Zucchero a velo e cocco in polvere (per la guarnizione)
Eventualmente: un po' di latte vegetale

Preparazione
Mescolate in una terrina la farina, la fecola, il lievito, lo zucchero e il cocco. Aggiungere poco alla volta l'olio, l'acqua e (se notate che l'impasto rimane poco fluido) un po' di latte vegetale (di soja, ad esempio). Infornate per 35/40 minuti a 180°. A fine cottura, quando la torta si sarà raffreddata, cospargetene la superficie con zucchero a velo e cocco in polvere.

(Nella foto in alto: torta al cocco di Isa.)

martedì 11 ottobre 2011

La difficoltà ad essere amati

Cosa ci può essere di più sprezzante del gesto di prendere un gatto e gettarlo fuori dal finestrino di un'automobile, mettendo a repentaglio la sua vita e abbandonandolo così al suo destino?
Era già accaduto alla piccola Emma. Accadde di nuovo con la madre di Matilde, una bella gattona di quattro anni, trovata dalla signora L. incinta e disperata sul ciglio dell'autostrada.
La signora L. si precipitò subito da Stefania col tremante fagotto fra le braccia. «Lo vede?» esclamò concitata. «Geme di spavento - e ansima! Avrà fame, avrà sete!»
Stefania scostò un lembo dello straccio di cotone che ricopriva la povera creatura e scosse il capo: «Non ha né fame né sete: è in travaglio».
Il risultato furono cinque splendidi gattini, due maschi e tre femmine. Una di queste, assicurava Stefania, era particolarmente docile e affettuosa e Isa (che sapeva bene che, dopo Mickey, non avrebbe potuto adottare altro, se non un animale di buon carattere) si lasciò convincere a portarla a casa.
Stefania l'aveva chiamata "Lupina"; Isa la battezzò Matilde, perché così le garbava. «Ha la faccia da Matilde» disse a Cathy che, in un caldo pomeriggio d'agosto, l'accompagnò a prendere la piccina.
Durante il tragitto in macchina da D. a Z., Cathy e Isa analizzarono a fondo quali fossero le cause che potevano spingere un essere umano a liberarsi di un gatto gettandolo dal finestrino di un'auto in corsa. Da lì alla più generale difficoltà ad essere amati il passo fu breve.
Cathy sosteneva che tanto lei quanto Isa dovevano senza dubbio possedere qualche difetto particolare, che spingeva le persone (per non dire gli uomini) ad allontanarsi da loro, a farsi distratte e sempre più evanescenti all'interno delle loro vite.
Isa annuiva con convinzione, mentre passava in silenziosa rassegna alcuni fulgidi esempi: Katia e Luna (1); D. ed Emiliano; A. e il "Cappellaio Matto"...
Così, in mezz'ora d'automobile, le due giovani donne fissarono i cinque punti fondamentali della loro sfortuna - ammesso che tale si potesse considerare.


Chiacchiere tra amiche...

Primo punto - Una naturale tendenza alla pazienza e alla comprensione è controproducente. Nonostante quanto affermato a parole, nella realtà dei fatti e in questa arrogante società, né le amicizie femminili né (ancor di più!) quelle maschili apprezzano chi sa ascoltare e anela ad aiutare il prossimo con buone parole e saggi consigli. Si preferiscono, di gran lunga, l'egocentrismo e l'affanno a prevalere.

Secondo punto (direttamente collegato al primo) - Gli uomini (proprio a loro è dedicato particolarmente questo secondo spunto d'osservazione) tendono a suddividere le donne in due categorie: le donne che si comportano in base a quanto descritto nel primo punto, alle quali viene riservata una sorta di tiepida amicizia, che può svanire in qualunque momento l'uomo lo ritenga opportuno per il giusto conseguimento dei propri interessi; e le donne "altre" che, al contrario, costringono il malcapitato di turno ad annullare la sua personalità e ogni desiderio, all'unico scopo di essere compiaciute. Queste donne sono oltremodo venerate e giustificate in ogni difetto - per quanto palese esso sia.

Terzo punto - L'empatia non è, contrariamente a quanto creduto fino ad allora da Isa e Cathy, una dote preziosa: mettersi nei panni degli altri per meglio comprendere il loro punto di vista ed evitare in tal modo gesti e parole spiacevoli è il più grande dei peccati. Se si voleva ottenere amore e rispetto, si doveva necessariamente mantenere lo sguardo fisso sul proprio tronfio ego.

«Noi, in questo modo, abbiamo sbagliato tutto!» diceva Cathy. Non ci credeva fino in fondo neppure lei, ma l'esigenza di risanare la propria sensibilità ferita sembrava indurire, in quel momento, i suoi pensieri e le sue parole.
Isa sapeva che Cathy non aveva tutti i torti; e tuttavia entrambe non riuscivano a rassegnarsi a diventare quel genere di donna.

Una volta tornata a casa, Isa cancellò i cattivi ricordi legati ai discutibili personaggi sopra elencati e, lasciata Matilde alle cure di C., corse a prendere dalla libreria la sua copia di Emma, di Jane Austen.
La sfogliò rapidamente per qualche minuto, finché non trovò quanto cercava: la chiave di tutto era racchiusa in un'unica parola: elegance...

Parte seconda

(Nella foto in alto: Gwyneth Paltrow e Toni Collette in una scena di Emma di Douglas McGrath, 1996.)

(1) Inserita nell'elenco dei personaggi di questo diario virtuale in quanto amica di Isa di lunghissima data, Luna, di fatto, non è mai apparsa su queste pagine: ciò proprio a causa del suo inspiegabile allontanamento, che Isa non ha mai compreso e che è stato per lei fonte di grande delusione.

mercoledì 14 settembre 2011

Il fantasma felice

La malattia di Mickey, il "piccolo cane rosso" si manifestò intorno alla metà del mese di giugno del 2011. All'inizio, Isa scambiò per un ascesso il gonfiore esteso alla mandibola inferiore; in realtà, si trattava di un melanoma.
«Il melanoma è un killer» disse tristemente il veterinario, nel tentativo di prepararla all'inevitabile. «I casi di mortalità sono elevatissimi. Proveremo a operarlo, naturalmente; ma non so quale potrà essere l'esito dell'intervento...»
Dopo l'operazione, Isa si chiuse insieme a Mickey nella Casa dei Ranocchi. Lui era sempre rimasto al suo fianco, fedele e discreto; abbandonarlo ora, anche solo per una semplice uscita con Cathy, le sembrava un ignobile tradimento.
Cercava di non pensare al sogno premonitore che aveva fatto pochi giorni prima del manifestarsi della malattia. Non si soffermava mai sul pensiero che presto Mickey (testimone amatissimo degli ultimi dodici anni della sua vita) non sarebbe più stato al suo fianco, a condividere pensieri e avvenimenti.
Isa preferiva dedicarsi piuttosto a rendere gradevoli e liberi da ogni affanno gli ultimi giorni di vita del cagnolino.
Durante il giorno, gli faceva ascoltare i brani di musica classica preferiti da nonno Francesco: Tchaikovsky, Mozart, Albinoni, Debussy, tutti i Notturni di Chopin... Mickey si acciambellava nella cuccia con gli occhi chiusi, ai piedi di Isa che scriveva o leggeva, e restava immobile per ore.
Alla sera, era necessario aiutarlo a pulirsi, poiché era diventato così debole da non riuscire più a lavarsi. Isa gli passava allora un paio di salviette inumidite su tutto il corpo e un batuffolo di acqua borica sugli occhi lacrimosi. «E' sempre stato un animale così pulito!» raccontava a Cathy per telefono. «Evitava perfino le pozzanghere, quando pioveva! E ogni sera, appena finito di mangiare, andava a strofinarsi per bene la bocca sul suo tappeto... Immagino che non gradisca, ora, sentirsi sporco e trascurato...»
Terminata la pulizia, si sistemava accanto a lui e gli leggeva ad alta voce qualche pagina di romanzo o una poesia. Anche i gatti si sistemavano sul divano ad ascoltare. Isa lesse l'intera Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare (l'uccello bianco, l'uccello bianco!) e alcuni capitoli di Creature grandi e piccole di James Herriot.
Isa cercava in questo modo di esorcizzare la paura e la tristezza attraverso le parole; non sapeva se ci riusciva davvero o se fosse il suo piccolo cane saggio, a farglielo credere.

Mickey morì nel pomeriggio del 17 agosto. Fu necessario praticargli l'eutanasia, perché ormai non si muoveva più e si lamentava ogni volta che cercava di cambiare posizione e non riusciva a farlo.
Fu sepolto nel giardino della nuova "Casa del Mago", sotto l'albero del fico. «Il fico è così adatto ai morti...» commentò Nyc.
Il 18 agosto scoppiò il grande caldo di quell'estate. Isa continuava a pensare a ciò che aveva detto a Cathy, qualche settimana prima: «L'eccesso di caldo è una piccola morte, a tutti gli effetti».
Il fantasma di Mickey fu avvistato per la prima volta il 25 agosto, intorno alle cinque del pomeriggio. Da parecchi giorni Isa diceva di sentirne lo scalpiccìo delle zampe per casa, ma nessuno le aveva dato retta: amici e parenti pensavano che fosse semplicemente molto stanca, forse un po' esaurita, a causa delle lunghe settimane trascorse senza mai svagarsi.
Quel pomeriggio, però, mentre erano sedute nel cortile sul retro a bere infuso di karkadé freddo e a discutere sugli ultimi avvenimenti riguardanti i personaggi secondari di questa storia, Cathy e Isa sentirono chiaramente la coda di un animale sfiorare i loro polpacci. Balzarono in piedi spaventate, restando ai lati opposti del tavolino e guardandosi in silenzio l'un l'altra per alcuni interminabili secondi.
«I gatti...?» sussurrò infine Cathy.
Isa scosse la testa: i gatti erano tutti chiusi in casa - e lo sapevano entrambe.
«Oh cielo...» mormorò allora Cathy, torcendosi le mani.
Isa strinse le labbra. «Al mio tre, solleviamo la tovaglia. Sei pronta? Uno, due e... tre
Alzarono i lembi della tovaglia a fiori, ma sotto il tavolo (come avevano sospettato) non c'era nessuno. Nessun animale, nessuna coda scodinzolante.
Cathy guardò Isa significativamente: «Tu pensi che...?». Parlavano a bassa voce, con mezze frasi, quasi non volessero disturbare l'ospite invisibile.
«Io non penso - io so che si tratta di Mickey» rispose Isa, iniziando a sparecchiare nervosamente.
«Non ti crederà nessuno.»
«Nyc mi crederà.»
«Oh, lei sì! Ma gli altri?»
«Non ho bisogno che mi credano, Cathy.»
«No, certo. Tuttavia... sarebbe bello poter avere la certezza che si tratta proprio di Mickey e non di... che ne so?... di un abbaglio... o del fantasma di qualche altro cane!»
«E allora? Cosa possiamo fare?»
«Domani porto con me la macchina fotografica.»
Cathy possedeva una vecchia macchina fotografica a pellicola: era convinta, infatti, che, per immortalare un cane-fantasma, occorresse uno di quei vecchi aggeggi, anziché una modernissima e compatta macchinetta digitale.
Così, il pomeriggio successivo tornarono ad apparecchiare per la merenda il tavolino nel cortile posteriore: la stessa tovaglia, infuso di karkadé e quel particolare tipo di biscotti al mais, che in vita Mickey aveva apprezzato parecchio.
Sedettero con un certo nervosismo e cominciarono a chiacchierare. Dopo qualche minuto, un martin pescatore volò basso sulla roggia, distraendole all'unisono; e proprio mentre erano voltate verso la recinzione, ebbero l'impressione che un paio di zampette impertinenti si fossero appoggiate sul tavolo, tirando la tovaglia. Si girarono, ma non videro nulla. Cathy, allora, si alzò ed estrasse la macchina fotografica dalla borsa. Disse a Isa: «Rimani seduta e sorridi» e scattò.
Una settimana più tardi, quando andarono dal fotografo a ritirare le stampe, rimasero senza fiato e dovettero sedere sulla prima panchina che trovarono, per non vacillare: la fotografia ritraeva Isa seduta sulla seggiola da giardino, sorridente, i capelli neri sciolti sulle spalle. Accanto a lei, col musetto sollevato e le orecchie girate all'indietro, come in attesa di un bocconcino, c'era la sagoma evanescente di un piccolo cagnolino rosso...



A partire da quel pomeriggio, le apparizioni di Mickey divennero una consuetudine.
Certo, non appariva a tutti e, quando Isa e C. avevano ospiti, il cane-fantasma preferiva rimanere in disparte. Tuttavia, quando in casa arrivavano gli amici di sempre (Cathy, Nyc, D., la "Zia", M....), non era raro sentire rumore di unghie sul pavimento, uno sventolare di coda contro le ginocchia ed era facile scorgere (con la coda dell'occhio e sempre e solo per una frazione di secondo) un'ombra rossa svoltare l'angolo del corridoio.
Per Isa, la presenza di Mickey, seppure in versione ectoplasmica, era una consolazione. Continuava a piangerlo e si struggeva di non poter più affondare le dita nel suo morbido pelo, così come di non poter più osservare la dolcissima espressione di quegli occhi nocciola; però aveva la certezza che, se gli avesse parlato, se lo avesse chiamato, lui l'avrebbe sentita.
Era il suo cane, dopotutto; non l'avrebbe MAI abbandonata...

mercoledì 27 luglio 2011

Vola solo chi osa farlo

Sogno dell'8 giugno 2011

Nel sogno, Isa si trova nella vecchia casa di Camino; in soggiorno, per l'esattezza, seduta al tavolo intagliato nel legno di pino. I sogni ambientati nella casa di Camino sono sempre molto precisi: Isa non manca di osservare gli sgabelli rivestiti di stoffa a fiori e la tela cerata a quadretti.

Fuori, un rumore di tramestio (come di unghie che grattano le mattonelle autobloccanti) richiama la sua attenzione: una tigre è entrata nel cortile.
A Isa capita spesso di sognare grandi felini affamati. In quel sogno, in particolare, teme che la belva possa fare del male a Mickey.
In effetti, non appena Isa esce precipitosamente di casa (scostando la solita tenda gialla, davanti all'uscio d'ingresso), vede che la tigre lo sta rincorrendo.
Il "piccolo cane rosso" scappa, ma non sembra molto spaventato: non corre, si limita a trotterellare con le orecchie piegate all'indietro, in un'espressione di discreto stupore.
Isa riesce a superare la tigre e a prendere Mickey tra le braccia. Tira un sospiro di sollievo - come se il suo intervento fosse sufficiente a salvarlo.
Sotto il palmo della mano che stringe il torace del cane, sente il suo piccolo cuore pulsare. Abbassa lo sguardo per osservarlo e nota con stupore che si è trasformato in un uccello bianco.
Isa apre allora le braccia e Mickey-uccello vola via...

Quella notte, si svegliò sorridendo. Era un sogno buffo, nel complesso. ("Non è un sogno buffo?" si domandò più volte, mentre tentava di riaddormentarsi.)
Due giorni più tardi, Isa notò nella bocca di Mickey uno strano gonfiore. Il 16 giugno, il cane veniva operato.
«L'avevo sognato, Nyc! L'avevo sognato e non sono riuscita a comprendere!» disse Isa un pomeriggio all'amica.
«O forse non hai voluto comprendere. In ogni caso, anch'io ho avvertito una brutta sensazione riguardo a Mickey, due giorni fa. Non ti ho detto nulla per non preoccuparti, ma l'ho sentita. Ed era netta...»
Isa sospirò, pensando che non sarebbe stata una buona estate...

(«L'eccesso di caldo, comunque, è "Sonno" tanto quanto il cuore dell'inverno, checché se ne dica. Una piccola morte, a tutti gli effetti...»)

domenica 17 luglio 2011

L'equilibrista

Cagliostro era capace di rimanere tranquillo per pomeriggi interi, acciambellato sul divano oppure raggomitolato nel suo cestino; ma, quando decideva che di sonno ne aveva avuto abbastanza e che aveva voglia di giocare, per Clizia cominciava il tormento.
Era divenuta cieca da qualche mese e non amava le novità, il baccano e i gesti troppo impetuosi. Non è difficile immaginare, dunque, quanto nervosismo suscitassero in lei i puntuali attacchi del giovane gatto nero.
Cagliostro attendeva nascosto che Clizia passasse - i giovani muscoli tesi nell'impazienza dello scatto. La gatta si muoveva lentamente, orientando i propri spostamenti per mezzo delle vibrisse e tale studiata lentezza sembrava che stimolasse vieppiù nell'altro l'istinto predatorio.
Non appena Clizia era passata e dava le spalle (ignara) al suo avversario, quello le balzava addosso, sulla schiena, nel tentativo di atterrarla. Gli agguati fallivano sempre miseramente, perché Cagliostro era un gatto atletico, con lunghe zampe affusolate, ma era ancora troppo giovane per avere la meglio sulla pesante mole di persiano di Clizia.
Questi giochi irruenti, tuttavia, gettavano la povera gatta cieca in uno stato di costante allarme. Spesso, per sfuggire all'assalto di quella che Isa aveva preso a chiamare "la Nera Pestilenza", perdeva l'orientamento e andava a sbattere contro il cordolo delle aiuole in cortile oppure contro i mobili del soggiorno.
Isa era in pena per entrambi. Temeva infatti che fossero infelici: Cagliostro perché non aveva nessuno con cui giocare, Clizia perché veniva costantemente aggredita alle spalle.
La soluzione a questo dilemma felino si presentò dodici mesi più tardi.
Un mattino, mentre era al lavoro, Isa ricevette una telefonata di C. «Hanno buttato via una gatta con le sue due piccole» le spiegò concitato. «Nel cortile di Enrico!» (Enrico era un signore ridanciano, che di mestiere faceva l'idraulico e che abitava in una via perpendicolare a quella di Isa e C.)
«Come sarebbe che l'"hanno buttata"?»
«Sì, una macchina! Ha gettato uno scatolone nel cortile di Enrico. Non sono riusciti a prendere il numero di targa...»
«Ma quando è successo?»
«Una settimana fa, più o meno...»
«E le micette? Come stanno?»
«La mamma nella caduta si è rotta una zampa, ma è già stata adottata. Anche una delle sorelline. E' la terza, che non riescono a sistemare. Dicono che fra due giorni la porteranno al gattile di Vercelli...»
Silenzio. Isa aspettò che fosse C. a parlare, poiché lei aveva già preso la sua decisione.
«Cosa dici, andiamo a vederla?»
«Per me va bene. Questa sera?»

La piccola superstite aveva cinque mesi ed era bellissima: interamente tigrata con la punta delle zampette bianca. Nel cortile di Enrico, si rotolava per terra esibendo il pancino immacolato e facendo mille moine, come per conquistare l'attenzione e l'affetto dei visitatori. Isa si accovacciò e la gattina le andò incontro, con la coda diritta. «Ecco, è fatta!» rise forte Enrico. Il giorno dopo, andarono a prenderla con la gabbietta di Clizia e se la portarono a casa.

In quel periodo, Isa stava rileggendo per l'ennesima volta Madame Bovary e così la nuova arrivata non poté che chiamarsi Emma.
Emma fu l'ago della bilancia, tanto che Isa presa a chiamarla "la Rasserenatrice" o (come preferiva) "l'Equilibrista".
Il suo arrivo nella Casa dei Ranocchi mise fine infatti sia alla noia di Cagliostro sia agli agguati ai danni di Clizia. Rispettosa della gatta più anziana al punto da non avvicinarlesi neppure, diventò, in capo a pochi giorni, la migliore compagna di giochi di Cagliostro, liberando Clizia dall'incombenza di essere giocosa quando in nessun modo poteva esserlo.
«Odi et amo!» esclamava Isa ridendo, osservandoli mentre si lavavano a vicenda dopo essersi rincorsi in lungo e in largo per tutto il cortile.


Emma e Mickey.

Due mesi dopo l'arrivo di Emma (dunque a dicembre, pochi giorni prima di Natale), Isa mise fine alla deleteria amicizia col Cappellaio Matto e questo fatto contribuì a rafforzare in lei la convinzione che davvero la piccola gatta grigia, con i "calzini" bianchi, fosse portatrice di serenità e di pace, nonostante l'indole testarda e battagliera.
Per più di un anno, in effetti, l'equilibrio rimase inalterato - fino al primo vero avvenimento doloroso che investì la Casa e i suoi abitanti...

venerdì 15 luglio 2011

Un gatto grigio scuro, quasi nero

Qualche tempo prima che Clizia sviluppasse l'insufficienza renale che la portò alla cecità (cfr. La storia della gatta contesa), C. disse di volere un altro gatto. «Mi piacerebbe un maschio.»
«Un maschio nero» precisò Isa, che per i gatti neri aveva sempre avuto un debole.
Si misero alla ricerca, nonostante sia risaputo che i gatti fanno capolino nelle scialbe vite degli esseri umani quando essi meno se l'aspettano e mai quando desiderano adottarne uno.
Il primo micetto nero che trovarono fu una femmina: nata nella cascina di un agricoltore del paese, era l'unica nera di una cucciolata di tigrati. C. era disposto a transigere sulla questione del sesso ma, quando andò a vedere la cucciolina, si spaventò: era una piccola furia. Durante la sua visita, in pochi secondi riuscì ad arrampicarsi sopra un cactus, ribaltare lo stendibiancheria e ridurre a brandelli un paio di tendine.
«Non possiamo mettere accanto a Clizia un terremoto simile» disse Isa; e Clizia, come se avesse sentito e compreso, entrò nella stanza e andò ad acciambellarsi sul divano con l'espressione più pacifica del mondo dipinta sul muso.
Delusi, accantonarono l'idea di mettersi in casa un nuovo gatto (nero).
L'occasione si ripresentò qualche settimana più tardi quando, parlando con la collega Valeria, Isa apprese che Paola, impiegata presso la biblioteca civica, aveva una passione per i gatti e tre cuccioli da sistemare.
Si accordarono per telefono. «Hai un maschio? C. vorrebbe un maschio...»
«Sì, un maschietto.»
«Ed è buono?»
«Finora non mi posso lamentare. Le sue sorelline... ecco, loro sono più agitate...»
«Il maschietto andrà benissimo. Di che colore è?»
«Grigio scuro, quasi nero.»
«Quando potresti portarmelo?»
«Martedì prossimo, va bene?»
Questa conversazione avvenne di venerdì; nei giorni successivi Isa cercò di immaginare come fosse un gatto "grigio scuro, quasi nero". Nella sua mente, riusciva a visualizzare un gatto grigio, della stessa tonalità color "certosino" di Clizia; poteva vedere un gatto nero - o un gatto tigrato; ma un gatto che fosse "grigio scuro, quasi nero" proprio non riusciva a immaginarlo.
A mezzogiorno di un nuvoloso martedì d'ottobre, Isa lasciò il suo ufficio nel palazzo del Comune (come ormai avrete capito, le attività lavorative della protagonista sono secondarie, in questo racconto, in quanto mutevoli e di breve durata), attraversò il cortile e la via adiacente e, armata di gabbietta, raggiunse la biblioteca civica.
Le colleghe l'accolsero cordialmente, con quella gioia frenetica che precede ogni passaggio di consegne. Il piccoletto era introvabile, perso fra gli scaffali, nella polverosa magia di quel mondo di parole stampate. Lo chiamarono più volte, agitarono il piattino delle crocchette. Alla fine Paola riemerse da dietro la scrivania col suo tesoro: un gattino di quattro mesi con il dorso nero - e le zampette tigrate color fuliggine. Un gatto grigio scuro, quasi nero. Isa lo prese in braccio e si fermò qualche istante a chiacchierare. Lui appoggiò la testolina sul palmo della sua mano e si addormentò.
«Come lo chiamerai?» domandò Paola.
«Ah, non te l'ho detto? Cagliostro. Un gatto nero non potrebbe chiamarsi altrimenti.»


Cagliostro, gatto di biblioteca. Si notino, sullo sfondo, gli scaffali e le copertine di alcuni libri.

Cagliostro si rivelò d'indole vivace ("Nera Pestilenza", amava chiamarlo Isa), ma di buon cuore. Era affettuoso, intelligente e Isa (che nel frattempo era di nuovo rimasta senza lavoro e dunque aveva molto tempo libero a disposizione, da trascorrere insieme ai suoi gatti) prese l'abitudine di fare con lui lunghe conversazioni.
Era dispiaciuta per il fatto che Clizia non avesse accettato di buon grado il nuovo arrivato (ma quale gatto lo fa? Inoltre, nel caso specifico, il nervosismo di Clizia era accentuato dal progredire asintomatico della sua malattia) e tentava di far divertire lei stessa il piccolo Cagliostro - dato che la gatta sembrava non avere nessuna voglia di giocare con lui e lo respingeva soffiando minacciosa - tenendolo sempre accanto a sé.
(Al contrario di Clizia, Mickey non ebbe difficoltà ad accettare il gattino come convivente: appena un paio d'ore dopo il suo arrivo, Cagliostro già rincorreva la coda del "piccolo cane rosso" e cercava di acciuffare con le zampette anteriori le sue lunghe, morbide orecchie pendule.)


Il piccolo cagnolino rosso e la nera pestilenza.

Col passare del tempo (e con l'arrivo di Emma, come si vedrà più avanti), comunque, l'equilibrio andò ricomponendosi: Clizia fu curata per la sua insufficienza renale e diventò più serena e la piccola Emma (adottata a settembre dell'anno successivo) divenne la compagna di giochi prediletta di Cagliostro che, insieme a lei, poté finalmente dare sfogo a tutta la sua vivacità di giovane gatto. Gli agguati ai danni della povera Clizia cessarono e Isa e C. poterono finalmente tirare un sospiro di sollievo.
Quanto a Cagliostro, Isa ebbe modo di notare - col trascorrere dei mesi e poi degli anni - quanto profondo fosse l'affetto che ormai lo legava a lei. «Gli altri possono essere "i gatti di casa". Ma questo - oh, questo è il mio gatto» amava ripetere Isa, con malcelato orgoglio.
«E menomale che l'ho voluto io!» si lamentava C., notando come Cagliostro si defilasse spesso quando lui lo accarezzava, mentre piegava la testolina in un gesto di inequivocabile infinito amore quando era Isa a dedicargli attenzione. D'altronde, non c'è nulla da fare: se un gatto sceglie di dare fiducia a un essere umano (e solo a quello), difficilmente gli si potrà far cambiare idea.
Cagliostro era bravissimo a captare i sentimenti e i malumori di Isa e a modulare su di essi il proprio comportamento: quando Isa era serena, se ne stava in disparte - anche per pomeriggi interi. Quando, al contrario, lei era malinconica, eccolo arrivare, discreto e silenzioso. Le sue fusa erano impercettibili, il suo tocco delicato. Le appoggiava una zampa sulla gamba, sulle mani, si strusciava contro la sua pancia - e Isa tornava a sorridere.
Quando il "Cappellaio Matto", a Natale del 2010, venne a casa di Isa per fare sfoggio di grettezza ed egoismo, Cagliostro gli dimostrò subito una palese antipatia. Mentre Isa piangeva, seduta sul divano, il gatto si mise accanto a lei, fissando gli occhi verdi in quelli piccoli e poco luminosi dell'uomo. Non si mosse dal fianco di Isa, nemmeno dopo che il "Cappellaio" se ne fu andato. Insieme, donna e gatto, rimasero per più di un'ora a fissare le luci intermittenti dell'albero di Natale, mentre i singhiozzi di Isa andavano calmandosi e il suo respiro si faceva più regolare.
Fu quella triste sera di dicembre che Isa comprese che Cagliostro era il suo "guardiano", capace di cogliere variazioni impercettibili (di qualunque natura esse fossero) e ad accompagnarle verso una tranquilla deriva.
Isa guardava con ammirazione alla dote nascosta del suo unico gatto maschio. (Ogni gatto possiede una dote nascosta e speciale, che non è evidente di primo acchito; per scoprirla, occorre saper osservare con attenzione il proprio felino e attendere con pazienza che abbia raggiunto l'età adulta.)
«Ho penato a lungo, Nyc, ma alla fine l'ho trovato!» disse un pomeriggio all'amica, nel corso di una lunga telefonata.
«Che cosa, cara?»
«Il mio Guardiano di Soglia!»
E così fu decretato: Clizia era "la Veggente"; Cagliostro "il Guardiano di Soglia".

domenica 3 luglio 2011

Nuove stanze

I luoghi non ci appartengono. Siamo noi che apparteniamo ai luoghi, finché possediamo respiro.
Così può accadere che un determinato luogo ci lasci andare, allontanandoci più o meno gentilmente da sé, qualora ci rivelassimo pronti per una nuova destinazione.
E' quanto successe con la Casa dei Ranocchi. Isa l'aveva battezzata così (come forse è già stato raccontato su queste pagine) prima dell'arrivo di Cagliostro e il nome era rimasto, sebbene, dopo due anni di vita del nero felino, di rane ne fossero rimaste veramente poche, nel cortile che s'affacciava sulla roggia.
Inizialmente (e dopo le strenue battaglie ingaggiate contro i nidi di ragno), Isa aveva considerato quella vecchia casa alta e stretta collocata nella periferia del paese (con alle spalle la campagna - e poi il cimitero) un vero e proprio rifugio e come tale l'aveva amata, agghindandone le pareti e le stanze. Non le importava che fosse piccola, umida, che i muri fossero da risanare e il tetto da rabberciare. Né si preoccupava troppo del fatto che la rata d'affitto mensile non avrebbe che aumentato il suo senso di precarietà.
Non so quante altre case avrò. Questa non è casa mia - così come non lo erano le altre in cui ho abitato. E tuttavia vi ho sempre fatto ritorno. Partire è necessario.
Aveva scritto Isa qualche tempo prima sul suo diario. Poi, con il trascorrere degli anni, il suo desiderio (assurdo! Paradossale!) di possedere un "porticciolo di quiete" e l'umidità crescente negli angoli della camera da letto (uniti alle infiltrazioni dal tetto, che nelle notti di temporale inumidivano il letto e la cesta della povera Clizia), spinsero Isa e C. a trovare una nuova sistemazione: più ampia e spaziosa e che potesse dare a entrambi la sensazione di essere più durevoli nel tempo e nel loro affetto.
Dopo una breve ricerca, si imbatterono nella casa di via P. di C.
Fino a qualche decennio prima, la gente del paese la chiamava "la Ca' dal Magu" (la "Casa del Mago"), per via di uno strano personaggio che l'aveva abitata agli inizi del Novecento.
Le ultime proprietarie erano state tre sorelle, che erano solite radunarsi a cucire nella piccola cucina esterna costruita in epoca recente oltre il cortile.
«Tre sorelle?» aveva commentato Cathy quando Isa glielo aveva riferito. «Non lo trovi inquietante?»
In verità, a Isa piaceva l'idea di questa solidarietà femminile di lunga data. Quanto al vecchio adagio sul "lasciare in pace i morti", sapeva bene di averlo trasgredito più volte negli ultimi anni, insieme a Nyc...


Il cortiletto interno della casa di Isa, visto dalla stanza del cucito appartenuta alle Tre Sorelle...

La casa aveva la struttura classica delle vecchie dimore della "bassa": una stretta scala al centro e le stanze disposte simmetricamente ai lati. Due al piano di sotto e due al piano di sopra. La porta-finestra della cucina sbucava sul retro, dove un cortiletto di circa centoquaranta metri quadrati («Qui organizzerò il mio hortus conclusus!» aveva decretato fin da subito Isa) era delimitato da tre muri perimetrali e da una casetta esterna più bassa, comprendente una cucina e un locale che poteva fungere da magazzino. Attraverso un grande portone in legno (allineato con la struttura della cucinetta) si accedeva quindi a un terreno rettangolare di discrete proporzioni (in cui era possibile ricavare un orto e un frutteto), che si affacciava su una stradina sterrata e, oltre, su un boschetto di pioppi.
Isa era stata abituata a vivere in compagnia dei pioppi. C'erano pioppi nei giardinetti cittadini in cui giocava da piccola e c'erano pioppi al di là della roggia, vicino alla Casa dei Ranocchi. «Sono piante molto loquaci» amava dire. Perfino Cagliostro, nei caldi pomeriggi d'estate, si sistemava sul davanzale dello studiolo per decifrarne le profezie.
La dottoressa M. raccomandava prudenza a Isa e a C. e rammentava alla ragazza quanto grande (e distruttivo) potesse essere il suo sconforto nei momenti peggiori.
A Isa non importava. Tutto ciò che desiderava era poter aprire e disfare valigie e bauli, sistemare spazi e armadi... Per poter partire serenamente (qualunque fosse la meta) necessitava di un luogo unico, immutato, a cui ritornare.

giovedì 16 giugno 2011

La complessa storia di Soufiane - Parte terza

Parte seconda

Isa trovò Soufiane in stazione e lo trovò sorridente, come sempre e nonostante tutto. Se ne andarono in pizzeria: Soufiane faceva fatica a leggere il menù, ma aveva molta fame, poiché era in giro per la città senza cibo né acqua dalla sera prima. Era evidentemente imbarazzato dalla presenza di C., ma i suoi grandi occhi neri brillavano colmi di gioia infantile.
Dopo la pizzeria, tornarono a casa.
La Casa dei Ranocchi non aveva una camera per gli ospiti, così Soufiane dovette arrangiarsi in soggiorno, tra i gatti e i libri di Isa.
La aiutò a preparare il letto, ringraziandola mille volte e accarezzando con dolcezza Emma, che si mostrava spavalda col nuovo arrivato: si strusciava contro le caviglie del ragazzo, passeggiava temeraria fra le coperte e i cuscini del divano.
Cagliostro, più cauto e costante nel suo compito di vigilare su Isa, osservava Soufiane da lontano, seduto sulla soglia della stanza, con la punta della coda adagiata sulle zampe anteriori.
«Gli piacerai» disse Isa, rassicurando Soufiane, che osservava perplesso il gatto nero. «Devi solo dargli tempo.»
Soufiane era comunque felice che qualcuno si occupasse di lui; ma il ragazzo non poteva restare nella Casa dei Ranocchi.
Il giorno seguente, domenica, Isa e C. lo riaccompagnarono alla casa-famiglia di T. Durante tutto il viaggio in auto, Isa tentò di convincerlo a non scappare più. «Non ti posso aiutare, se continui a scappare. Lo capisci?»
«Non mi trattano bene là. Non mi mandano a scuola, non mi comperano le scarpe...» Alzò un piede, per mostrare la scarpa da ginnastica con la suola scollata, di due numeri più grandi.
«Devi avere pazienza...» ribadì Isa; tuttavia, appena oltrepassarono la soglia della comunità, capì come non fosse possibile avere pazienza in certe circostanze.
Furono accolti da una giovane e saccente educatrice, Daniela, con unghie lunghe laccate e occhiali dalla montatura spessa. Volgare e sbrigativa nel modo di parlare. A pelle, Isa provò per lei una forte antipatia. Non le piaceva quel posto. Non le piaceva la luce debole e fredda di quelle stanze, l'orribile giallo "becco d'oca" con cui erano state dipinte le pareti.
L'educatrice condusse Isa e C. in "ufficio" e mandò Soufiane a farsi una doccia. Quindi sedette dietro a una scrivania disordinata, tradendo un evidente nervosismo. «Ecco, adesso che sono soli, di là...»
«... chi?» la provocò volontariamente Isa, affettando ingenuità.
«I ragazzi, i ragazzi! Ora che sono soli, chissà cosa combineranno!»
Non aveva ancora finito di pronunciare la frase che già dal piano superiore si sentivano arrivare grida e colpi sul pavimento.
Daniela uscì dall'ufficio come una forsennata e si precipitò su per le scale, urlando.
Isa e C. la seguirono sul pianerottolo, perplessi.
Simone, un concitato ragazzino asmatico, mise la testa fuori dalla sua stanza, esclamando: «Si stanno picchiando!» e trascinò i due malcapitati visitatori dentro la camera. Qui dopo poco riapparve Daniela, spettinata, ansimante, che mise il telefono nelle mani di Isa («Chiami i carabinieri, presto!») per poi sparire di nuovo, inghiottita dalla tromba delle scale che conducevano al secondo piano.
Chiusi nella stanza di Simone (che, nel frattempo, presidiava l'ingresso e tentava di respirare con regolarità), Isa e C. chiamarono la stazione dei carabinieri e tentarono di spiegare loro l'accaduto - senza saperne di fatto nulla.
Quando finalmente l'educatrice decise di scendere, strappò il cordless dalle mani di Isa con un impacciato "Faccio io" e andò a chiudersi nell'ufficio.
Simone spiegò a Isa che Soufiane si era picchiato con un ragazzo da poco maggiorenne, temuto da tutti (educatori inclusi) e che proveniva dal carcere minorile.
«E che cosa ci fa, qui, un ceffo simile?» domandò C. «Questa non è forse una comunità per minorenni con problemi familiari?»
«Sì... in teoria...» rispose Simone con evidente imbarazzo.
Ignorati sia da Daniela "l'educatrice" sia dalle forze dell'ordine che nel frattempo erano giunte sul posto, Isa e C. decisero di tornare a casa.
Bussarono alla porta dell'ufficio: «Noi andremmo...»
«Sì, certo» rispose Daniela, riprendendo a recitare la parte della rigida e inappuntabile educatrice di comunità. La situazione, ormai, era ai limiti del grottesco. «Le farò avere quanto prima il numero di telefono dell'assistente sociale di Anis, come d'accordo.»
Uscirono in silenzio, senza parlare fra loro. Giunti nell'angusto cortiletto, scorsero Soufiane sul balcone dell'ufficio, da solo. Li stava guardando, senza osare richiamare la loro attenzione.
Lo salutarono dal basso, raccomandandogli di stare tranquillo e di comportarsi bene. «Sii forte!» gli disse C., stringendo i pugni in un gesto di incoraggiamento.
«E non scappare più!» raccomandò Isa. «Altrimenti come ti ritroviamo?»
«Sì, sì. Ma io non ho fatto niente, credimi...» Soufiane sorride di nuovo.
Il viaggio verso casa, in automobile, fu lungo e silenzioso.

Tre giorni dopo, la "casa-famiglia" di Torino telefonò a Isa, per informarla che Soufiane era scappato di nuovo e che di lui non c'erano più notizie...

sabato 23 aprile 2011

Connessioni

Ci sono storie che non hanno parole per essere raccontate, rimangono sepolte come semi che non possono dare frutti, ma solo dolore. Rimangono chiuse dentro la mente di chi le ha vissute come ingorghi che diventano per la memoria labirinti in cui si rischia sempre di perdersi. Meglio non addentrarsi. Per non turbare gli altri, per non irrompere con la propria “scomoda” verità nel mondo dei più che rincorre la spensieratezza e che forse non sarebbe in grado di capire. Meglio tacere per non esserne sopraffatti. [1]

Nella maggior parte dei casi, Isa sceglieva di tacere. Non di dimenticare - soltanto di tacere. Salvo poi accorgersi che il peso delle parole non dette minacciava di soffocarla, di toglierle respiro e speranza. Diventava penoso, allora, alzarsi dal letto, distribuire il cibo ai gatti,
perfino leggere un buon libro. Il lavoro, poi, e i gesti improrogabili della vita quotidiana erano addirittura insostenibili.
Isa scriveva allora a Nyc lunghe lettere su carta ingiallita, come sempre faceva quando doveva trovare un senso a certi accadimenti.
Così quando, scrivendo, si accorse che Soufiane era nato nello stesso mese del Cappellaio Matto, a pochi giorni di distanza seppure molti anni dopo, l'evidenza dei fatti la colpì come uno schiaffo in pieno volto.
Doveva fare ammenda, in qualche modo: i segnali erano inequivocabili e né lei né Nyc credevano nelle coincidenze.
Isa si metteva allora a osservare il cielo, il naso alle stelle e la mente rivolta all'intricata sequela degli avvenimenti passati.
«Qualcosa ti sta chiamando» diceva Nyc - e anche Isa ne era convinta: era come se tutte le estenuanti discussioni col Cappellaio Matto, tutta la cattiveria riversata nelle accuse che lui le rivolgeva e che lei (come una stupida donnetta!) non era in grado di controbattere, dovessero in qualche modo trovare pace e riscatto nell'affetto per Soufiane che, per volontà del fato, era nato sotto le stesse stelle del Cappellaio.
«Se ne andrà anche lui» sosteneva Nyc e Isa trovava conferma dei propri timori in quelle parole: che cosa avrebbe fatto, quando anche Soufiane l'avrebbe abbandonata? Non poteva far altro che sperare che lo strappo, in quest'ultimo caso, non fosse troppo doloroso.
Intanto, si crogiolava nella conferma di tutti i suoi presagi: nella corrispondenza serena, da parte di Soufiane, dei suoi migliori sentimenti; nelle parole sempre gentili che il ragazzo le rivolgeva; nella gratitudine che, al di là di ogni apparente durezza, riusciva a dimostrarle.
"Psicologicamente" pensava Isa " si direbbe compensazione - e non so fino a che punto sia un sentimento sano".
Ma Isa credeva più nel suo cuore, piuttosto che nella psicologia e continuava a rincorrere Soufiane nelle peripezie della sua travagliata vicenda personale, tentando di dimenticare le accuse del Cappellaio Matto, la crudeltà del suo tono di voce mentre pronunciava giudizi taglienti sul suo conto.
«Perché te ne importa tanto?» le domandava C. Isa taceva, poiché non poteva né sapeva rispondere...

[1] E. De Luca, Tu, mio, Feltrinelli, Milano 1999.

mercoledì 20 aprile 2011

La complessa storia di Soufiane - Parte seconda

Parte prima

Scontratosi per l'ennesima volta con l'insegnante di matematica e, per giunta, avendo minacciato un compagno di percosse, se non gli avesse consegnato i suoi costosi scarponcini Timberland - Soufiane fu espulso definitivamente dall'istituto. Isa domandò invano sue notizie per un mese e mezzo, assillando i colleghi e perfino i propri studenti: «L'avete visto? Sapete qualcosa? Come sta? Tornerà a scuola?».
Dopo aver trascorso parecchie settimane a bighellonare senza alcun controllo per la città di A., Soufiane fu infine trasferito a T., nella casa-famiglia "Insieme".
Isa era tenuta costantemente informata dei suoi spostamenti non dai servizi sociali né dal direttore della comunità; bensì dall'efficientissimo amico e compagno di Soufiane, Yassine, che puntualmente, nei cambi d'ora e nell'intervallo, consegnava ad Isa il suo bravo rapporto.
E poiché l'ingerenza di Isa nel "caso Soufiane" non sembra essere vista di buon'occhio da alcuni insegnanti, i due si ritrovavano spesso a parlare sottovoce, nel frastuono della ripresa delle lezioni dopo la pausa delle undici; o nascosti dietro la macchinetta del caffè, come due cospiratori.
«Ha dormito per quindici giorni sul vagone di un treno» borbottava Yassine fingendosi interessato agli annunci sulla bacheca scolastica.
«Oh, cielo...» sussurrava Isa angosciata. «Ma non era stato trasferito a T.?»
«Certo. Ma è scappato. Dice di non trovarsi bene. Non gli comprano le scarpe...»
Isa diede infine il suo numero di telefono a Yassine, con la consegna di chiamarla, se Soufiane fosse scappato di nuovo e si fosse trovato a vagare senza meta ad A.
Questo avvenne un sabato sera di gennaio, mentre Isa e C. si stavano preparando per andare a cena nella piccola e accogliente risotteria "Oryza": un nome pretenzioso per un piccolo locale, arredato con gusto.
«Prof! L'ho trovato!» esordì Yassine con entusiasmo. «Glielo passo!»
Soufiane, al telefono, sembrava distratto e intimidito. «Hai dove andare a dormire?» domandò Isa.
«No.»
«E mangiare? Hai mangiato?»
«No, no.»
«Aspettami lì, vengo a prenderti.»
Isa annullò la cena, finì di vestirsi in tutta fretta e andò a recuperare Soufiane alla stazione di A. Nei quaranta minuti di viaggio, si ritrovò a pensare a quanto fossero bizzarre (e crudeli) le coincidenze della vita; o, meglio, le "connessioni", come amavano chiamarle lei e Nyc...

Continua...

mercoledì 16 febbraio 2011

La storia della gatta contesa

Ci sono gatti che sono amanti impenitenti. Altri che possiedono il talento dei ladri - o dei bugiardi. Alcuni sono ruffiani, altri lazzaroni. Esistono gatti assenti e gatti onnipresenti. Clizia era una veggente.
Le persone che frequentavano la Casa dei Ranocchi osservavano ammirate il fascino oscuro di Cagliostro e si lasciavano sfuggire un sorriso di fronte alla tenerezza di Emma; ma restavano letteralmente senza parole davanti alla bellezza distante e impassibile della gatta dal lungo pelo grigio.
«E' così bella da risultare imbarazzante» aveva commentato Gabriele e Isa pensava che avesse ragione.
Ricordava bene il giorno in cui Clizia venne a farle visita per la prima volta.
Apparteneva ai vicini, una famiglia rumorosa e poco gentile; di fatto, conduceva un'esistenza spartana sul ciglio della strada. La sua "proprietaria" la alimentava una volta al giorno con cibo scadente; per il resto, doveva arrangiarsi con piccioni, topi e passerotti. Quanto al pelo - il suo bellissimo fluente manto color grigio scuro - era spesso arruffato e spettinato, impolverato e infestato da parassiti.
Quando Isa e C. si trasferirono nella piccola casa al margine del paese, Clizia non si precipitò a far visita ai nuovi arrivati: la curiosità sfacciata non le si confaceva.
Arrivò qualche settimana più tardi - e si limitò a fare capolino nel cortile, pronta a una fuga dignitosa se si fosse reso necessario.
«Oh, guarda che bella gatta!» esclamò Isa scorgendola. Non aveva ancora ispezionato la base di quella lunga coda a pennacchio, ma era sicura che non potesse trattarsi d'altro che di una femmina. Gli occhi obliqui, il nasino all'insù: era una signora gatta, senza dubbio.
«Hai visto? E' venuta qualche volta, mentre c'erano i muratori. Ma credo le desse fastidio il rumore, perché se n'è andata subito...» rispose C.
Isa si chinò ad accarezzarla e la gatta rispose ronfando forte.
«E' carina.»
«Carina non rende l'idea. E' molto bella. Ma è tenuta male. Vedi? Ha il pelo tutto annodato, sporco... Le ciocche alla base della schiena sono marroni. E il naso? Le hai guardato il naso? Gocciola come se avesse il raffreddore... Forse è randagia. In questo caso...»
«No» la interruppe C. «Non è randagia. E' della famiglia dell'Osvaldo. Quelli che abitano due case prima della nostra. Ho sentito che la chiamavano, un pomeriggio. E poi l'ho vista uscire dal loro cortile.»
«E come si chiama, questa bella creatura?»
«Clizia.»
«Clizia?»
C. annuì.
«Come siano riusciti a darle un nome così bello è un mistero...» borbottò Isa fissando la gatta nei grandi occhi color smeraldo.

(«... non era amore quello
era come oggi e sempre
venerazione.» [1])

Poco per volta, Clizia divenne un'ospite fissa. Mickey, che era abituato a relazionarsi coi gatti più che con gli altri cani, la accettò subito di buon grado: dopo le prepotenze inflittegli da Atena, la discrezione di Clizia doveva sembrargli manna piovuta dal cielo.
Tuttavia i guai non tardarono a venire. I vecchi "proprietari" di Clizia (di nessuna creatura vivente si può dire che abbia un proprietario: affermarlo di un gatto è addirittura blasfemo) si ingelosirono, come capita spesso agli innamorati stanchi.
Non appena si accorsero che Clizia trascorreva la maggior parte del suo tempo a casa di Isa, cominciarono a dare l'assalto al citofono. «E' lì la mia gatta?» domandava la figlia di Osvaldo con malagrazia.
«No, sono giorni che non la vedo» mentiva Isa.
Arrivò infine la più grande nevicata del 2009: Clizia aveva dormito per tutta la notte al caldo, acciambellata sul divano e a C. mancò il cuore di metterla fuori dalla porta come faceva ogni mattina prima di andare a lavorare. «Fa troppo freddo, questa mattina. Magari domani...»
Da quel momento la sontuosa gatta grigia si trasferì ufficialmente nella Casa dei Ranocchi. Le comprarono una cesta imbottita, del buon mangime, spazzole e pettini per quel suo lungo pelo ribelle. Clizia acquistò peso, ignara delle liti che Isa e C. dovevano affrontare per causa sua.
«Vi denunciamo, ci avete rubato il gatto!» strillava Osvaldo con quella sua voce alta e starnazzante.
«Vi denunciamo noi, per maltrattamento!» ribatteva Isa, sventolando una fotografia in cui la miciona appariva derelitta ed emaciata.
Soltanto una volta i testardi vicini di casa riuscirono a reimpossessarsi del conteso felino: approfittarono di una sua fuga momentanea e lo rinchiusero nel loro cortile. Il ritorno "a casa" durò poco meno di un'ora: Clizia miagolava con tale disperazione che le riaprirono la porta e la rimisero in strada. Isa aprì il cancello e la fece rientrare, bagnandole la testa di calde lacrime.

I gatti sono e rimangono comunque creature libere e Isa si domandò per molto tempo per quale motivo Clizia, abituata a vivere in strada e affezionata alla sua faticosa libertà avesse deciso di diventare una animale da salotto.
«E' un incrocio con un persiano» disse il veterinario. «Sono animali molto tranquilli, pacifici, amano la vita comoda.»
Ma Isa non era persuasa: aveva visto Clizia mettere in fuga molti coraggiosi gatti di strada, pur di difendere il suo territorio e ricordava con quanta freddezza riuscisse a cacciare i volatili, decapitandoli e aprendoli come libri sulla soglia di casa. "Questo è un gatto che, nonostante il suo aspetto raffinato e aristocratico, se la sa cavare benissimo da solo" pensava Isa osservandola e continuando a non capire l'ostinazione della sua scelta: perché la Casa dei Ranocchi? Perché dopo quattro anni trascorsi a vivere all'aperto? Non poteva trattarsi di semplice affinità elettiva - sebbene fosse innegabile che Clizia e Isa si erano subito affezionate l'una all'altra.

La risposta a quegli interrogativi arrivò un anno più tardi: a causa di un'insufficienza renale congenita («I persiani sono molto soggetti a questo tipo di patologie» scosse la testa il veterinario, mentre a Isa tremavano il mento e le labbra), Clizia diventò completamente cieca.
Fu allora che Isa comprese le ragioni della sua ostinazione, di quella testardaggine che la spingeva ogni notte ad abbandonare la caccia ai topi per starsene seduta davanti al cancello della Casa dei Ranocchi, finché Isa o C. non andavano ad aprire.
«Lei lo sentiva! Sapeva che sarebbe diventata cieca e ha chiesto il nostro aiuto! In strada, dove era costretta a vivere, sarebbe morta presto, in queste condizioni: investita da un'auto oppure a causa della sua malattia...» commentò Isa sbalordita e C. non poté che darle ragione.

L'insufficienza renale fu curata e tenuta sotto controllo con una terapia giornaliera: alla fine del 2011 i valori del sangue di Clizia erano quasi perfetti; ma la cecità regredì di poco. Questa menomazione, faceva sì che la "gatta veggente" (come ormai Isa l'aveva soprannominata) mal sopportasse l'esuberanza di Cagliostro, che nel frattempo aveva fatto il suo rumoroso ingresso nella Casa dei Ranocchi, alla tenera età di quattro mesi, una settimana e tre giorni.
Fu per questo motivo che, dopo un anno di litigi furiosi fra i due gatti, Isa e C. decisero di tentare il tutto per tutto e di adottare un compagno di giochi per Cagliostro.
Così, se Clizia era "la Veggente", Emma divenne a pieno titolo "la Rasserenatrice"; ma questa è un'altra storia.
Quella di Clizia, la gatta contesa, ha un lieto fine: lei trovò una casa, assistenza e cure nei giorni più bui della malattia, finché non si ristabilì completamente; i vicini di casa si misero l'animo in pace, limitandosi a diffondere pettegolezzi di fuoco su Isa e C. per tutto il paese. Quanto a questi ultimi, non furono mai denunciati per furto o per appropriazione indebita - come Osvaldo aveva minacciato - e si ripeterono più volte di aver fatto la scelta giusta.

Continua...

[1] E. Montale, Clizia nel '34. Clizia, infatti, oltre a essere (nella mitologia greca) la ninfa innamorata di Apollo che per seguire il suo eterno amore decise di trasformarsi in heliotropium, fu anche il nome dato da Eugenio Montale alla sua musa ispiratrice più celebre, l'italianista americana Irma Brandeis.

mercoledì 12 gennaio 2011

Prove d'abbandono

Isa sapeva di avere un pessimo carattere. Era generosa, certo; allegra e di compagnia; amava le chiacchiere, le risate e, di fronte agli imprevisti della vita, sapeva essere cautamente ottimista.
Il suo problema - il suo vizio capitale, per indulgere a una visione cristiana della vita - era l'ira; quel nervosismo fremente che non l'abbandonava mai e che, al momento meno opportuno, esplodeva in un getto ribollente di rabbia, grida, oggetti infranti e disperazione. Pareva a tutti gli effetti l'eruzione di un vulcano; ma Isa preferiva definirla "l'onda nera", poiché nulla la inquietava quanto l'elemento acquatico e il gorgoglìo cieco del mare di notte.
L'onda nera arrivava, sommergeva tutto, distruggeva quanto costruito nei mesi e nelle settimane precedenti e si rititava lasciando dietro di sé (e dentro Isa) un doloroso irrigidimento, unito a una detestabile freddezza. Nei giorni successivi alla crisi, Isa si chiudeva in casa, rifiutava l'appoggio di amici e parenti, il conforto dei libri. Soltanto Mickey e i gatti potevano avvicinarla - e lo facevano in silenzio.
Le radici di questa "instabilità emotiva"

(«Lo sai qual è la mia più grande paura, M.?»
M. taceva, aspettando che fosse lei a parlare.
«Di diventare pazza, di disperdermi definitivamente in non so quanti frammenti... E' stupido?»
«Nessuna paura è stupida, Isa.»)

le radici di questa instabilità - si diceva - affondavano (come ogni complesso che si rispetti) nell'infanzia della giovane donna: nei silenzi di sua madre, negli scoppi di collera del Professore.
Quando era andata in analisi, Isa aveva diligentemente annotato nel suo diario sogni e sensazioni: ne era uscito un affresco a tinte stonate, che le aveva sì dato una visione d'insieme dei suoi irrisolti, ma ben poche certezze riguardo alla possibilità di controllare l'onda nera e i suoi esiti nefasti.
In effetti, era stato proprio il proprio brutto carattere ad allontanare C., Isa ora ne era certa.
Ci rifletteva da molto tempo e il senso di colpa la pungolava, senza lasciarle un attimo di pace.
"Hai rovinato tutto" le diceva la vocina interiore. "Hai gettato i migliori anni della tua vita alle ortiche e tutto per cosa? Per puntiglio? Incapacità di trattenerti? Per forza che lui si è allontanato da te! Chi la vorrebbe, una donna simile?"
La voce era impietosa e Isa le dava retta più di quanto avrebbe dovuto.
Per alcuni mesi provò a confidarsi col Cappellaio Matto, attribuendogli uma capacità di comprensione che quel poveretto non aveva mai posseduto. In lui (collerico, egoista, crudele nelle parole e nei gesti) ricercava la pazienza di C., la sua naturale predisposizione all'ascolto e la bontà di un animo scevro di ogni ipocrisia. Ricerca destinata ovviamente ad avere esito negativo.
«C. è un brav'uomo» le diceva M. con la saggezza dei suoi ventitré anni. «Dimentica il suo allontanamento, prova a perdonarlo come lui ha sempre perdonato te.»
«Oh, mi sento una stronza!»
«A volte lo sei.»
Isa guardava M. col mento tremolante. «Ho detto "a volte"» si affrettava ad aggiungere lui.

Ma Isa - che per tutta l'adolescenza si era affannata a elargire affetto a chi non lo desiderava né lo meritava - faceva ora molta fatica ad avvicinarsi a quanti parevano respingerla.
Era più forte di lei: non ci riusciva. Considerava l'assenza la peggiore delle punizioni; o delle colpe, a seconda del punto di vista.
All'assente, io faccio continuamente il discorso della sua assenza; situazione che è tutto sommato strana; l'altro è assente come referente e presente come allocutore. Da tale singolare distorsione, nasce una sorta di presente insostenibile; mi trovo incastrato fra due tempi: il tempo della referenza e il tempo dell'allocuzione: tu te ne sei andato (della qual cosa soffro), tu sei qui (giacché mi rivolgo a te). [1]
C. si trovava "lì" non soltanto perché Isa parlava di lui e a lui nelle pagine del suo diario; ma anche perché non aveva mai abbandonato la Casa dei Ranocchi, nonostante le incomprensioni e i frequenti litigi dell'ultimo periodo.
Isa trovava bizzarra quella commistione di quieta familiarità e di sofferenza, di vicinanza e assenza in un'unica dimensione.
Riflettendoci bene, soltanto i gatti sapevano dosare con altrettanta (con maggiore!) sapienza amore e abbandono, innamoramento e lontananza.
Pensava a Cagliostro, che la amava follemente pur restandole a debita distanza fino a sera, momento in cui decideva di potersi concedere le più affettuose effusioni; ma anche a Clizia che, da quando era divenuta cieca, aveva fatto del distacco e del riavvicinamento un'arte sottile - un ricamo di contrari.
E questo le riportò alla mente - com'era facile prevedere - l'avventurosa storia di Clizia, gatta veggente...

[1] R. Barthes, Frammenti di un discorso amoroso, Einaudi, Torino 2001, p. 35.

lunedì 10 gennaio 2011

La complessa storia di Soufiane - Parte prima

Ciò che colpiva di più, nel volto regolare di Soufiane, erano gli occhi. Isa pensava di non aver mai incontrato nessuna donna (figurarsi un uomo!) che li avesse altrettanto belli e colmi di rassegnata solitudine.
Durante il primo giorno di lezione di Isa, Soufiane era entrato in aula con una ventina di minuti di ritardo. «Dov'è il vostro compagno?» aveva domandato lei alla classe, al momento di segnare le assenze sul registro.
«In bagno» avevano risposto i compagni e qualcuno si era perfino lasciato sfuggire una risatina ironica.
Soufiane era rimasto in bagno finché ne aveva avuto voglia.
In bagno, in cortile, oppure in officina - o in qualunque altro luogo della scuola fosse andato a rintanarsi prima di affrontare l'ennesimo avvenimento sgradito: la conoscenza di una nuova insegnante con cui, suo malgrado, avrebbe dovuto trascorrere un buon numero di ore e che, come molti altri, lo avrebbe rimbrottato, redarguito, detestato. Già gli pareva di sentirla: «Come ti permetti di andartene a zonzo durante le mie ore di lezione?», avrebbe strillato con la voce acuta e intollerabile delle donne in collera. Non erano tutte come sua madre, che non gridava mai, neppure quando suo padre afferrava i figli per i capelli trascinandoli sul linoleum della cucina fino all'angolo da cui non potevano fuggire.
Soufiane sospirò, gettò la sigaretta nel water e uscì dando un calcio alla porta.
Quando entrò in aula, Isa lo apostrofò con un semplice "Oh, buongiorno!". Soufiane, che si era diretto subito verso il banco senza degnarsi neppure di trovare una scusa plausibile per il proprio ritardo, la guardò di sottecchi e si sorprese nel constatare che - a dispetto del tono di voce serio e compunto - Isa stava sorridendo.
Non era un sorriso pungente né di sufficienza; era un reale e apertissimo sorriso divertito. Soufiane non poté non esserne contagiato: sorrise anch'egli, abbassando la visiera del cappellino di lana a mo' di difesa e, per pochi secondi, i suoi grandi occhi nocciola si illuminarono di allegria.
Per tutta la lezione rimase buono e silenzioso, con lo sguardo fisso su Isa che riassumeva trame di romanzi, passeggiando avanti e indietro davanti alla cattedra: non capiva tutto ciò che lei diceva (nessuno, dalla terza elementare in avanti si era mai premurato di insegnargli a leggere e a scrivere, perché Soufiane era un ragazzo "difficile da gestire" - avevano ribadito per anni maestri e professori), ma lo trovava insolito e colorato.
Il giorno successivo Soufiane rispose sgarbatamente alla richiesta dell'insegnante di scienze di levarsi il cappello in classe e, durante le ore di italiano, fu mandato per punizione a pulire l'officina.
La settimana successiva sgattaoiolò in cortile durante il cambio dell'ora ed entrò in aula in ritardo durante quasi tutte le lezioni di italiano e storia. Isa non diceva mai nulla: era stata informata per sommi capi della sua situazione, l'avevano messa in guardia sul conto di quel caparbio ragazzo tunisino che viveva nella comunità di recupero e, dopo aver ascoltato tutte le campane, lei aveva deciso di porre buone basi per i mesi a venire. Perciò, quando Soufiane arrivava in ritardo, lo accoglieva col solito "buongiorno" d'intesa; quando si distraeva e disturbava i compagni gli chiedeva gentilmente di tacere; quando si alzava senza permesso, lo pregava di ritornare al proprio posto. Non aveva bisogno di gridare perché Soufiane, a differenza di molti altri, non era arrogante.
Aveva un'intelligenza vivace e amava disegnare. Per Isa tracciò su un foglio la sagoma di un gatto: aveva il pelo irto e la bocca spalancata in un soffio impaurito, ma era pur sempre un gatto.
«Non è per fare della psicologia spicciola» aveva commentato Isa con la collega d'inglese, sventolando il disegno «ma certi segnali mi sembrano abbastanza eloquenti.»
Poco per volta, i ritardi all'inizio delle ore di italiano diminuirono: a dicembre Soufiane era sempre presente in classe quando Isa arrivava e faceva da interprete fra lei e un altro ragazzino extracomunitario, giunto in Italia da pochi mesi. Se chiedeva di andare in bagno, Isa sollevava un dito ammonitore e gli diceva seria «Mi raccomando: cinque minuti», ben ricordando quanto fosse bravo a eludere ogni sorveglianza. Soufiane sorrideva come il primo giorno e ripeteva «Cinque minuti», come se si trattasse di una solenne promessa. Cinque minuti dopo rientrava in classe e andava a sedersi, senza più muoversi fino al suono del campanello.
Isa era soddisfatta e stava organizzando un programma intensivo di esercizi per colmare le sue vaste lacune nella lingua scritta, quando accadde ciò che era inevitabile e Soufiane fu allontanato dalla scuola.

Continua...